IDAHOBIT come lotta per le differenze
di Giuseppe Seminario
È proprio un 17 maggio, del 1990 per essere precisi, il giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità elimina definitivamente dall’elenco delle malattie mentali l’omosessualità, da quel momento definita ufficialmente “una variante naturale del comportamento umano”. Certamente un passo in avanti rispetto al “disturbo sociopatico della personalità” descritto nella prima edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM). Redatto nel 1952 dall’American Psychiatric Association (APA), il DSM-I subisce diverse revisioni prima del 1987, anno nel quale la depatologizzazione dell’omosessualità in tutte le sue sfaccettature viene pienamente sancita sul suolo statunitense, dando il là all’agenzia dell’ONU. Chi aveva un orientamento non eterosessuale, fino a quell’istante, poteva essere liberamente definito “malato”. Una conquista importante, frutto di anni di lotta di un giovane movimento LGBTI sul piano medico-scientifico, che svela il ruolo che quest’ultimo ha avuto nel marcare una differenza rispetto alla normalità eterosessuale. Ruolo che continua ad avere se guardiamo al transessualismo e all’intersessualità, ancora oggetto di medicalizzazione forzata in molte parti del mondo. Un piano che inevitabilmente si è intrecciato fin da subito con quello culturale e politico, diventati campi di battaglia principali per la lotta contro una società discriminante in cui l’omofobia non è normata ma si fa norma, dettata dalla scienza e dalla legge.
I piani del dibattito, più o meno nello stesso periodo, si intersecano anche in Italia, dove la prima manifestazione pubblica del movimento LGBT+ nostrano – che ha visto la luce poche settimane prima – coincide con il “Congresso internazionale sulle devianze sessuali”, in programma a Sanremo il 5 aprile del 1972. A organizzarlo è il Centro Italiano di Sessuologia che si ispira a principi cattolici. Un gruppo di militanti del F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), capitanato dal mai troppo compianto Mario Mieli, si ritrova per manifestare contro le teorie riparative promosse da psichiatri e psicologi aderenti che, ignari di ciò che avrebbe scatenato, chiedono l’intervento delle forze dell’ordine. L’arrivo della polizia trasforma il sit-in di quaranta persone in un gesto dirompente per l’epoca, grazie anche all’ironia delle pratiche e degli slogan (“Psichiatri, siamo venuti a curarvi”) e dall’onestà delle rivendicazioni riassunte dalla frase “Sono un omosessuale e sono felice di esserlo”, pronunciata da Angelo Pezzana dal palco. Agli attivisti e alle attiviste che in quei giorni scendono in piazza è già ben chiaro che riconoscimento collettivo e benessere personale siano gli obiettivi di una battaglia culturale e politica a tutto tondo: una battaglia che investe il privato e il pubblico, senza soluzione di continuità; che passa attraverso la presa di parola e la denuncia delle discriminazioni fisiche, verbali o psicologiche, sempre pronte a emergere alla prima occasione.1 Una battaglia iniziata allora e che prosegue ancora oggi, al tempo dei matrimoni e delle unioni civili.
Quindi ben vengano giornate come l’IDAHOBIT, momenti in cui avere voce e visibilità, con l’augurio che un giorno qualsiasi differenza diventi una ricchezza condivisa. Sarà una lotta dura contronatura, ma ce la faremo.
1 Per un approfondimento sui moti di Stonewall e sul sit-in di protesta del F.U.O.R.I. si veda Pride: non c’è libertà senza rivolta di Elisa Manici.
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