LA NESSA (E IL SESSO)

Intervista al settantenne Silvano, per le amiche “La Nessa”: il sesso oggi è un amarcord di trappole, darkroom ante litteram, amori in Montagnola e per l’Europa, eroina, frocie rivoluzionarie o represse come un copertone. Mi accoglie nel suo appartamento al piano terra, ho portato i cannoli, è diabetico ma li mangia comunque. Inizio a scrivere.

“Era da poco morto mio papà e mi ero comprato il motorino facendo il ragazzetto del bar di mio zio in Riviera. Una domenica andai al cinematografo all’Arena del Sole e imparai subito che la galleria diventava quello che adesso chiamate darkroom: salivi le scale interne dalla platea e nei posti in penombra ne succedeva di ogni. Qualche anno dopo misero i cartoni animati al mattino a 500 lire: un sacco di papà smollavano i cinni in platea e venivano a farsi fare le pompe.

Poi c’era la Montagnola (se eri busone all’epoca si diceva che eri “uno che va in Montagnola”) col luna park, la zona dei travestiti e una più selvatica e buia, dove dopo le 18.00 arrivava una marea di militari in libera uscita. Scappavo spesso lì a sfogarmi, tra la vergogna e la curiosità; non avevo molto successo perché ero timido, stavo seduto sulle panchine finché non arrivava qualcuno e allungava le mani. Si doveva stare attenti però perché a volte facevano le retate.

Nel ’67 conobbi Jean Claude, un francesino in vacanza che ci provò da subito, tentò di baciarmi ma a me faceva un po’ schifo. Mi scriveva delle gran lettere (ne ho ancora uno scatolone). L’anno dopo andai anche a trovarlo, mi insegnò tutto sul sesso, ma io con la scusa di andare nei musei mi esercitavo coi tipi bellocci nei bagni turchi.

A Bologna me la facevo coi fricchettoni nei trappoli, che erano scantinati o soffitte che allora si usava affittare per fare balotta alla sera, fumare dei gran cannoni e farci sesso; che poi a me non me ne fregava una mazza di comuni, riso macrobiotico, autostop e di tutto ‘sto delirio, mi piaceva la camicia stirata da mamma e il piatto cucinato, dei contrasti coi padri manco mezza che il mio era già bello che morto. E insomma in un trappolo conobbi Robby, un olandese dolcissimo che studiava scienze politiche, il primo amore.

Il primo giorno facemmo sesso tutto il pomeriggio, io ero cotta persa: rimanevo ore a guardarlo mentre dormiva, lo abbracciavo, aspettavo che si svegliasse e rimanevo folgorato ogni volta che apriva quei suoi occhioni azzurri. Fu lui a farmi prendere coscienza politica, ma anche coscienza di me: incominciavo a non vergognarmi, dicevo a tutti che ero innamorato, anche a mia mamma che poveretta pensava avessi la fidanzata: quella volta si fece un gran pianto!

Con 10.000 lire in Piazza Verdi vendevano biglietti falsi con cui andavo spesso a trovarlo, feci anche amicizia coi suoi: il padre era simpaticissimo, prima dei pranzi andavamo a scolarci il gin e a fare chiacchiere in giardino. Ci regalò anche un viaggio; Robby insistette per andare a San Paolo, per il caldo diceva… ma io (stupida, ma non così cretina) scoprii che era venuto a rivedere un brasiliano. Tornai subito in Italia e piansi per tutte le dodici ore di volo: ero disperata, amareggiata, depressa e drogata.

Per anni non ne beccai uno decente: facevo sesso nei trappoli o alla Bassona, la spiaggia nudista di Ravenna, con le fricchettone splendide e disinibite, con le venete represse come un copertone che piombavano a Bologna in branco per andare al Kinki, coi greci e palestinesi che poi ti chiedevano il regalino. Poi un pomeriggio del ’77 (avevano da poco ucciso Lo Russo) incontro Stefano: un ragazzetto di 20 anni, silenzioso, coi riccioli rossi fatti con l’hennè. Mi dissero che viveva nelle case occupate in via Laureti e che faceva le marchette su Pontelungo per comprarsi l’eroina.

Appena iniziammo a frequentarci finì in San Giovanni in Monte perchè dei poliziotti l’avevano beccato con due bustine addosso, con altri sballatoni a rubare alla Standa; andavo a trovarlo in pausa pranzo, ci parlavamo da una finestrella, affacciata sulle celle, che una vecchietta di via Castiglione affittava a 500 lire. Dopo il processo si ripulì in una clinica, siamo stati assieme 15 anni, è stato l’amore della mia vita.

Vennero gli anni ’80, il Comune ci assegnò il Cassero di porta Saragozza: avevamo un posto dove ritrovarci, sbevazzare in terrazza, ballare alle feste memorabili della Antonia e Laroche, trombare nelle cantine in mezzo al ciarpame di stracci di materiale scenico. E venne pure l’HIV: in un paio d’anni vidi parecchi amici dimagrire, riempirsi di chiazze addosso e andarsene. Eravamo tutti terrorizzati e il sesso divenne meno spontaneo, non sapevamo bene cosa fare o non fare.

Adesso sono vent’anni che va avanti la mia storia con la Santuzza, un quarantenne siciliano col pistolino sempre dritto che vedo ogni tanto senza convivenze, fedeltà e tutte ‘ste menate. Faccio sesso di meno, con più dolcezza e meno tabù, ho acquisito ormai il mio repertorio e fatte le mie esperienze, tendo a decidere più che da giovane. Ogni tanto vado in sauna ma cercando di stare attento, che se mi sforzo troppo mi viene male alla schiena per giorni, non ho più l’età per certe robe insomma.”

pubblicato sul numero 0 della Falla – dicembre 2014