di Vincenzo Branà
Donna, lesbica, nera, attivista: Marielle Franco, giustiziata per strada la notte del 14 marzo a Rio de Janeiro, rappresentava tutto ciò che un sistema di potere gestito da maschi bianchi, ricchi ed eterosessuali non riesce a tollerare. Fu una delle più votate alle comunali che nel 2016 la portarono nel consiglio municipale di Rio. Dalla sua Favela de Maré, una delle zone più povere e cruente della città, Marielle aveva portato nelle istituzioni la sua battaglia contro la violenza di genere, il suo impegno per garantire alle donne tanto l’accesso all’aborto quanto l’assistenza al parto, la sua indignazione contro l’uso della violenza di Stato. Pochi giorni prima di morire aveva definito le squadre di polizia “battaglioni della morte“: in seguito proprio dalla polizia sono risultati provenire i nove proiettili che l’hanno uccisa.
Le donne come Marielle sono la minaccia più concreta al potere patriarcale, alle politiche della diseguaglianza, alla povertà e alla violenza. Perciò il potere le uccide. Di continuo. Prima di Marielle era toccato nel 2015 a Shaimaa, l’attivista egiziana ammazzata a colpi di proiettili di gomma, in uso alle forze dell’ordine; e proiettili e fendenti avevano ucciso nel 2016 anche Jo Cox, laburista britannica, appena pochi mesi prima di Hande Kader, l’attivista trans stuprata, uccisa e data alle fiamme in Turchia. Se la violenza di genere è il rituale efferato con cui il maschio afferma la sua supremazia, quando le donne attentano a questa regolarità direttamente sul piano del potere, facendo politica, possono arrivare a pagare il loro coraggio con la vita. In Brasile, come in Turchia, in Egitto, in Gran Bretagna. Nessun confine nazionale definisce zone franche, perché nessun politico maschio, di quelli che parlano di sicurezza, usando gli stupri come alibi per il razzismo e la militarizzazione dello spazio pubblico, avrebbe mai incoraggiato o sostenuto una leader come Marielle.
pubblicato sul numero 34 della Falla – aprile 2018
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