IL SILENZIO SULLA COMUNITÀ LGBTQIAP+

Il 30 dicembre 2020, Netflix ha reso disponibile SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie dedicata alla omonima comunità terapeutica di recupero per tossicodipendenti. Cinque puntate di circa un’ora che analizzano gli anni d’oro della realtà di Coriano, comune nell’entroterra riminese: Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta

La narrazione è serrata – inevitabilmente, visto che la produzione si impegna ad addensare tutta la storia che va dal 1978 al 1995 – alternando filmati di repertorio direttamente collegati alla vicenda a testimonianze di chi ha vissuto SanPa in quel contesto e di persone famose vicine all’ambiente. Il team autorale messo insieme dalla casa di produzione 42 è composto da Carlo Gabardini, Paolo Bernardelli e Gianluca Neri, che è anche ideatore della serie, mentre la regia è affidata a Cosima Spender. I temi trattati sono vari, ma si punta l’attenzione soprattutto sui metodi attuati a San Patrignano, che, come raccontano molte testimonianze, spesso sfociavano in vere e proprie violenze fisiche o psicologiche

Dopo la visione di questa docuserie, una domanda affiora sul pelo dell’acqua: che parte ha avuto il popolo LGBTQIAP+ in questa vicenda? Bene inteso: probabilmente, all’interno di una comunità italiana di recupero a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, il ruolo delle persone non eterosessuali non è stato il primo problema da affrontare. 

Vincenzo Muccioli – fondatore di SanPa – e i suoi hanno provveduto a separare il più possibile gli uomini dalle donne per evitare contatti promiscui e possibili gravidanze indesiderate, anche se poi, in comunità, si sono create famiglie e sono nati bambini e bambine e Andrea Delogu – figlia di Walter, autista e guardia del corpo dello stesso Patron – è solo l’esempio più noto. 

Davvero, allora, negli anni in cui l’Aids veniva spiacevolmente considerata la malattia dei gay, in quel di Coriano tuttə sono statə sempre ritenuti eterosessuali o cisgender? Renzo Pesco, uno fra i primissimi casi di positività al virus in comunità, muore nell’85 e Muccioli lo accudisce con dedizione – alcunə dicono per un interesse particolare nei suoi confronti e altrə solo perché fedele ai principi del cammino di riabilitazione che proponeva – ma, solo molto più tardi, lo stesso Muccioli accenna ai suoi più stretti collaboratori di aver probabilmente contratto l’Hiv proprio a causa di quella frequentazione, specificando sempre, però, si trattasse di assistenza al malato. 

Tutto rimane avvolto in un mistero che mischia il riserbo alla mistificazione: Pier Andrea, fratello di Muccioli, fa notare come nessunə abbia mai davvero saputo di cosa sia morto Vincenzo, nemmeno la loro madre.

Spiace notare come oggi il tema della sua omosessualità venga gettato lì senza attenzione: due frasi di pochi secondi che instillano il dubbio, perché il problema risulta essere più attuale che allora

Quest’ultima frettolosa informazione sul fondatore della comunità non aggiunge e non toglie nulla a un personaggio che, nell’intento del documentario, viene scandagliato con attenzione: se è vero che – qualora fosse stato gay – Muccioli per primo avrebbe faticato a riconoscere e accettare il proprio orientamento sessuale, legato com’era alla tradizione di uomo tutto d’un pezzo, machista e misogino, colpisce la superficialità di un autore che, invece, ha già dimostrato di essere molto attento alla sensibilità della comunità a cui appartiene. 

Carlo Gabardini ha fatto coming out nel 2013 attraverso una lettera aperta su Repubblica in cui ha condannato ogni forma di omofobia e, da allora, ha partecipato a video contro il bullismo, ai Pride e a diversi incontri a tematica LGBTQIAP+. 

Possibile veramente che né lui, né gli altri autori si siano fermati a riflettere sulla presenza di persone omosessuali in comunità, o sulla loro accoglienza, o sulla gestione di queste relazioni? 

Perché – oggi e non negli anni ’80 – in Italia si sceglie ancora di silenziare la voce della comunità arcobaleno? 

La risposta suggerisce motivi antipatici: forse esiste una reticenza a parlarne della stessa comunità di San Patrignano, che in alcune occasioni si è già dimostrata chiusa in se stessa; o forse è semplicemente la manifestazione del disinteresse di chi crea questi prodotti culturali e di chi ne fruisce da spettatore o spettatrice. 

La totale indifferenza al tema, però, accende un riflettore involontario sull’argomento e con esso, si spera, anche un dibattito più attento.

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