PATRIZIA VALDUGA: GENERE, VIOLENZA E IDENTITÀ

«Mi dispero perché non ho parole

che ad attrarti e tenerti sian ventose, 

né a impaurirti parole-pistole

del pari del vetriolo perniciose;

 

non ne ho, per colpirti, come mole,

attive maledette e contagiose, 

neanche ne ho armate o di gran mole, 

o lievi, per sfiorarti, o voluttuose, 

 

e termometriche, o anche al tornasole, 

d’intimità segrete in più curiose, 

di contese, in riserve nere, spose 

 

al piacere, nemmeno di insidiose

ne ho, quelle che in cuore sono esplose, 

e non lasciano mai intatte le cose.»

da Medicamenta

 

La vaga etichetta di poesia femminile, di cui si serve un approccio più tradizionale allo studio delle autrici in Italia, non sempre sembra rispondere alla complessità, a tratti problematica, dell’opera di Patrizia Valduga. Se non supportata da un’analisi degli elementi che riconducono il testo all’esperienza del genere femminile, così come si costruisce a livello sociale, oltre che individuale, tale etichetta rischia di risultare immotivata e superficiale. 

Inoltre, a questo si aggiunge la necessità di fare esperienza dell’opera letteraria tenendo conto delle sue possibili modalità di ricezione, considerata la possibilità – oramai assodata dalla critica contemporanea – che il testo si collochi anche dalla parte dell’ascolto e del contesto. Da qui ha inizio la mia riflessione sul cortocircuito tra una sensibilità femminista, che accompagna il mio approccio alla lettura, e il teatro di erotismo e violenza allestito da Valduga

Senza escludere la necessità dell’analisi testuale e formale, così importante nel contesto di ripresa della metrica effettuato da Valduga, mi chiedo perché non considerare in parallelo anche l’esperienza che l’io lirico vive in quanto donna da una prospettiva di genere. Non si tratta di navigare in sovra-letture anacronistiche, né di definire erroneamente femminista un’opera e un’autrice che risultano ben lontane dall’esserlo. Si tratta piuttosto di problematizzare un’esperienza di lettura affascinante, ma conflittuale se orientata da una precisa sensibilità. L’impressione è che sia proprio la messa in discussione di questa sensibilità il perno in grado di sostenere una lettura sì azzardata, ma motivata dalla curiosità di indagare l’esperienza di genere nella produzione lirica, soprattutto laddove l’opposizione simbolica dei generi sembra svolgere una funzione semantica essenziale. Valduga, nata a Castelfranco Veneto nel 1953, esordisce sulla scena letteraria nel 1982 con la raccolta Medicamenta, che la inserisce a pieno titolo tra i cosiddetti neo-metrici a lei contemporanei. In una fase storica della poesia italiana in cui la ripresa dello schema metrico è una risposta alla crisi del linguaggio poetico tradizionale, il contributo di Valduga si distingue per la sua specificità. E questo è bene ricordarlo, soprattutto considerando che non di rado si sfiorano confronti svilenti e superflui tra la sua opera e quella di Giovanni Raboni, grande poeta e suo amatissimo marito. 

Ripartendo proprio dal recupero del sonetto, della sestina, dell’ottava, da Dante a Petrarca fino a Tasso, Ariosto e Marino, Valduga invoca l’esigenza inquieta di una gabbia metrica che non si limiti a sedurre con il suono. La forma chiusa si fa strumento di equilibrio tra due logiche in tensione, quella conscia e quella inconscia, per una coesistenza che definisce la sua poesia come «pensiero emozionato o emozione pensante»

 L’ossessione formale e il manierismo, uniti alla disperazione per l’assenza di parole «Mi dispero perché / non ho che poche erose scrofolose / parole, a darsi all’ozio solo intente / che non sanno fare niente», non sono solo fattori di linguaggio. Il piano retorico sembra quasi fondersi al piano esistenziale in un intreccio meta-poetico che interroga direttamente l’identità e la soggettività femminile dell’io lirico. Ma che cosa rende femminile la poesia di Patrizia Valduga? 

Da Medicamenta a Cento quartine e altre storie d’amore (1997) fino a Lezioni d’amore (2004) siamo alle prese con un io che in prima persona si rivolge a una soggettività maschile nell’evocazione materica e corporale del rapporto sessuale, luogo di lotta per lo spossessamento di potere. Le opposizioni semantiche e spaziali tra alto/basso; sopra/sotto; voce attiva e voce passiva; pieno/vuoto; dentro/fuori; forza/debolezza; soggetto/oggetto, corrispondenti a un tu maschile imperante e a un io femminile subordinato, contribuiscono a quell’effetto di disimmetria che nel sistema di opposizione simbolica dei generi, per citare Pierre Bourdieu, realizza il rapporto sessuale nei termini di un vero e proprio rapporto tra entità dominante e dominata. 

Nell’inferno erotico evocato, la violenza sessuale e simbolica, da non ridurre a mero feticcio contenutistico, assume spesso la dimensione di un desiderio masochista di «costrizione al godimento».  L’io lirico infatti ricerca attivamente, da un tu nemico amato e non amante, la riduzione di sé a oggetto di contesa: «Legami annegami e infine annientami. / Addormentami e ancora entra…riprovami. / lncoronami. Eternami. Inargentami.» Anche laddove non viene raffigurata come consensuale, ed è il caso del poemetto La tentazione (1982-1984), la violenza sessuale sembra servire come metafora più ampia di una tensione per il possesso della propria voce femminile. È nella dimensione guerresca e notturna dell’esperienza erotica, volta all’annichilimento di sé e alla morte, che scaturisce il possibile riferimento tra la lotta dell’amore e la lotta per l’identità in un intreccio meta-poetico di riferimenti.

L’io di Valduga simbolizzato come essere percepito si anela e al contempo si dispera anche in quanto essere parlato. Su un piano formale l’impiego ossessivo della citazione, cifra della poetica postmoderna, nutre il testo di materiali di recupero, rendendo il gioco erotico gioco del ritaglio e dello strazio di una tradizione canonizzata e venerata dall’autrice, ma chiaramente centrata su voci maschili. Il furto del verso allora non indugia sulla soglia di un semplice sperimentalismo, ma funge da strumento di riappropriazione formale della voce. Sembrerebbe il caso di La tentazione dove la violenza subita assume la forma di un centone, costruito interamente sulla combinazione di versi altrui. Se l’io anela alle voci dei santi padri della poesia italiana, allo stesso tempo teme l’afasia e sfida la prigione metrica, piegata all’espressione e alla ricerca di un’identità femminile che non trova corrispondenti nel passato. Come dal Carteggio (1988), dedicato «al poeta incognito (e multiplo)» la donna in miseria non ha «né palmi né lauri né mirti». Il risultato eversivo a cui approda la trasfigurazione retorica e lirica della violenza simbolica, subita dalla voce femminile, si problematizza se ci confrontiamo con la dimensione più prosaica e politica della poesia di Valduga, ad esempio, in Corsia degli incurabili (1995), e con recenti dichiarazioni personali al limite del sessismo. La contraddizione tra una presa di posizione pubblica davvero discutibile e la consapevolezza poetica di un’autrice sovversiva, vittima essa stessa di episodi di sessismo in passato, è una difficoltà di cui la ricezione e la critica si possono nutrire. Non per appiattire né per giudicare, ma per avvicinare la complessità. 

Immagine in evidenza da newtuscia.it, nel testo da outsidersweb.it e da pangea.news