La prima volta che ho sentito parlare della Lettera Scarlatta ero bambina e non sapevo si trattasse di una delle principali opere letterarie del cosiddetto American Renaissance

Deve essere stata mia mamma la prima persona da cui ho sentito ripetere il titolo come se fosse una specie di espressione proverbiale. Non mi ha mai parlato del libro o del suo autore, Nathaniel Hawthorne. 

Il suo medium di riferimento doveva essere stato il film omonimo, diretto nel 1995 da Roland Joffé: The Scarlett Letter

Quella lettera scarlatta, volata dalla copertina di un libro pubblicato per la prima volta nel 1850, finì per insinuarsi nel patrimonio di conoscenze condivise di mia madre come metafora utilizzata, non di rado, per suggerire un atto osceno o riprovevole commesso da una lady

La lettera scarlatta nel romanzo è un segno sul corpo di una donna. Cucita letteralmente sulla veste della protagonista, Hester Prynne, la lettera è emblema dello stigma sociale che la comunità puritana della città di Boston, nel tetro New England del XVII secolo, imprime sulla giovane. Condannata pubblicamente per aver commesso adulterio ed essere rimasta incinta al di fuori del vincolo matrimoniale, viene costretta a indossare pubblicamente il segno del suo peccato.

La lettera è sì un simbolo e una metafora, ma trattandosi di un ricamo è per prima cosa un oggetto con una sua materialità. La scelta di valorizzare la molteplicità di sensi racchiusa nella lettera non è solo teorica o letteraria. Proprio questa scelta, cui la lettura femminista del romanzo conduce, libera l’opera da letture totalmente fuorvianti, chiuse a ogni possibile meccanismo di identificazione ed empatia con la sua stessa eroina.

Leggere La Lettera Scarlatta come racconto fedele alla teologia puritana e patriarcale della società nord-americana delle origini ribalta la gerarchia dei personaggi immaginata dal suo autore: il personaggio maschile Arthur Dimmesdale emerge come unico eroe sacrificale; mentre Hester Prynne viene ridotta a una Eva tentatrice. 

Ministro puritano di Boston, Dimmesdale infrange i suoi voti innamorandosi di Hester, ma a differenza di quest’ultima nasconde e interiorizza il fardello dello stigma, minacciato dalla perdita di potere e della sua autorità. Solo quando il rimorso diverrà insostenibile, alla fine del romanzo, il reverendo si deciderà a confessare i suoi peccati. 

Una lettura di questo tipo, sconfessata a partire dagli anni Settanta dalla critica femminista, non solo ignora del tutto l’antipatia profonda dell’autore verso la figura del reverendo, ma sembra sottovalutare il ruolo chiave della prefazione autobiografica The Custom House. Il paratesto, in cui è da includere anche il titolo, veicola il significato complessivo del testo stesso, illuminandone le implicazioni femministe. 

Qui Nathaniel Hawthorne sfuma i confini tra realtà autobiografica e finzione, mettendo in scena l’artificio classico del manoscritto ritrovato. L’autore finge di ritrovare il ricamo di una lettera scarlatta nella soffitta polverosa della dogana, luogo di lavoro a cui i dettami e le aspettative tossiche del nascente capitalismo americano lo hanno costretto, lontano dalle tentazioni della scrittura e dell’arte.  

Lo spazio del paratesto si realizza dunque come spazio confessionale delle insicurezze dell’autore. Se infatti parliamo di un uomo bianco e borghese ben integrato nel sistema dominante, non è possibile ignorare le pressioni esercitate da quel ruolo e da quel sistema. Con lo sviluppo mercantile e industriale della società americana di fine Ottocento, il sistema dominante tendeva ad annichilire il tentativo delle donne di affermarsi nell’universo letterario. Il paradosso però è che alla scrittura e alle lettere, intese come attività professionali scarsamente produttive, veniva poi assegnato un ruolo femminile e quindi un rango inferiore. 

L’inadeguatezza avvertita dall’autore nell’esercitare una professione non all’altezza del suo ruolo di genere, secondo la narrazione dominante, deve aver favorito il suo avvicinamento ai movimenti per la lotta dei diritti delle donne. L’intesa affettiva e intellettuale con Margaret Fuller, figura di riferimento del nascente femminismo americano, non può che averne condizionato l’opera e la costruzione stessa del personaggio di Hester Prynne. 

Quando nella famosa Prefazione Hawthorne si trova in mano la lettera scarlatta si rivolge alle ladies, esperte di arti domestiche, per valutare la preziosità del ricamo. Tale intento allocutorio non solo rintraccia nella componente femminile della società l’unico pubblico possibile in grado di apprezzare e comprendere simili artefatti, ma gioca sul doppio senso simbolico della lettera stessa. 

Se la lettera è ricamo, è anche segno alfabetico, racconto, letteratura. 

Il suo apprezzamento ed esercizio richiede un investimento emotivo ed empatico denigrato da un crescente e nocivo materialismo, in parte interiorizzato dall’autore, ma di cui al contempo lui stesso doveva sentirsi vittima. 

L’identificazione con la protagonista infatti avviene, ma solo parzialmente. Nella prefazione  Hawthorne prende la lettera di stoffa e se la preme sul petto. 

Avvertendo come un calore bruciante, la allontana immediatamente da sé, consapevole di non poterne sopportare il dolore, quasi mimando la posa del personaggio di Arthur Dimmesdale. 

Hawthorne lascia così la scena alla sua eroina che in prima persona trasforma la gogna pubblica in palcoscenico. Hester si autodetermina senza alcun bisogno della salvazione esterna di un’entità maschile diegetica o autoriale. Se la lettera A nasce per richiamare solo la sua condizione di adulteress, condizione negativa e subita, lo stigma è reale e presente. Ma questo viene ribaltato di segno e agito da Hester con un atto di riappropriazione della sua storia personale, rendendo così la A simbolo della sua resilienza. E questa forse è la vera storia che dobbiamo raccontare.

Illustrazione di Ren Arman Cerantonio, immagine in evidenza da inchiostroeparole.it e immagine nel testo da artspecialday.com