LIBERAZIONE E RESISTENZA COME PRATICHE DELL’ATTUALE

Quando lessi per la prima volta Il diario di Anna Frank avevo nove anni. Non posso dire, come vorrebbe la formula di rito, che è stato uno dei libri “che mi ha cambiato la vita”, perché ha letteralmente contribuito a disegnarla, la mia vita. Per mesi ebbi degli incubi sui nazisti che mi venivano a cercare mentre ero nascosta. Mi confortava il pensiero – del tutto errato – che almeno l’Italia fosse “dalla parte dei buoni”, che noi i malvagi tedeschi nazisti li avevamo combattuti. Ad alimentare questa idea sbagliata era stato un mix confuso tra frasi di dibattiti alle Feste dell’Unità estive e l’approccio della mia maestra, una democristiana di ferro che, forte del suo sentimento antifascista, ci aveva presentato la Resistenza con tale enfasi da farmi credere che quella fosse la posizione ufficiale italiana nel conflitto. Contribuì anche la vulgata, ancora in auge negli anni ’80 teatro della mia infanzia, che voleva gli “italiani brava gente”, che andavano in guerra quasi controvoglia, “colonizzatori gentili” in Africa, etc.

Quando, mesi dopo, mi fu chiaro il mio gigantesco errore, rimasi impietrita dall’orrore, e mi sentii la bambina più stupida al mondo. Il lato positivo fu che, avendo finalmente compreso quale fosse realmente lo scacchiere delle alleanze italiane, mi resi conto, nel medesimo periodo, che anche in Italia c’erano state leggi razziali, e non perché i nostri compatrioti bonaccioni fossero stati costretti dall’arcigno alleato nazista. Nello stesso tempo compresi il valore della Resistenza. Le partigiane e i partigiani non avevano combattuto “in nome dello stato italiano”, ma, prima ancora che contro i tedeschi, contro la dittatura fascista, che in quel momento dominava il nostro Paese. Erano andati contro la legge ufficiale in nome di un ideale di uguaglianza, libertà e democrazia. Il loro esempio mi insegnò che, quando una legge è ingiusta e schiaccia gli essere umani, è giusto andarvi contro. Diventarono i miei eroi, e il 25 aprile la mia festa preferita di tutto l’anno. 

Quest’anno ricorrono i 72 anni dalla Liberazione. È necessario interrogarsi costantemente su cosa possiamo fare, nel 2017, per tenere viva la memoria della nostra storia tutto sommato recente, e perché non si ripeta. È un compito difficile, per molte ragioni. Molti ragazzi non conoscono la storia e ignorano cosa si celebri il 25 aprile. La narrazione ufficiale, spesso retorica e trombona, allontana la gente come e più di una malattia infettiva.  Lo scenario politico internazionale sembra ormai avviato verso un periodo in cui i governi dei principali Paesi occidentali abbracciano le destre e il populismo, come reazione ai lati negativi della globalizzazione, alla crisi economica, alla paura generata dal terrorismo. Al momento si tira un sospiro di sollievo ogni volta che l’estrema destra non vince le elezioni in un Paese europeo, sconfitto magari da un centro-destra che di norma aborriremmo.

La Shoah, che conta circa sei milioni di vittime, viene a volte paragonata, in modo francamente surreale, ad altri tipi di uccisioni, senz’altro esecrabili ma non certo della stessa gravità, come fanno ad esempio alcuni vegani antispecisti paragonandola alla mattanza degli agnelli per Pasqua.

La gente non si vergogna più di esprimere pubblicamente opinioni razziste, e i social media sono una inevitabile cassa di risonanza per shit storm di ogni genere. A loro volta i radical chic scrivono, sempre sui social, frasi come: “La democrazia è sopravvalutata”, credendo di essere salaci, ma contribuendo a svilire, nell’immaginario collettivo, una forma di governo che, benché di antica concezione, viene applicata appieno nel nostro Paese da 72 anni soltanto, che sono davvero pochi in termini di storia umana.

Cosa possiamo fare, allora, stante tutto questo, senza ripiegarci nell’individualismo nichilista più sfrenato? In due parole, che certamente assumono declinazioni diverse per ciascuno: restare uman*. Non cedere alle narrazioni razziste sui migranti e i rifugiati invasori e parassiti, né tanto meno a quelle sui musulmani tutti terroristi e potenziali kamikaze. Cercare le fonti delle notizie più controverse prima di diffonderle sui social. Non cedere al sentimento populista in base al quale “la politica non serve a niente” e “i politici sono solo ladri scaldapoltrone”, ma anzi, farla in prima persona, la politica, a qualunque livello e in qualunque modo si voglia o si possa.

Cercare di analizzare sempre – e se possibile decostruire – i pregiudizi sull’altro da noi. Alle persone LGBT+ dovrebbe venire più facile, visto che loro stesse sono – o sono state – il diverso di cui avere sospetto per molto tempo, ma non è che essere LGBT+ renda automaticamente persone consapevoli: dalla donna trans che parla dei Rom come una qualunque beghina di quartiere, al bodyshaming di molti gay, se ne sentono parecchie anche nel mondo LGBT+. Anche solo la “banale” gentilezza nei confronti del prossimo può essere un modo per resistere a una cultura dilagante che non dà valore all’essere umano.

È faticoso andare contro la corrente, ma ne vale la pena: la posta in gioco è alta.
Buona Resistenza a tutt*.

pubblicato sul numero 24 della Falla, aprile 2017