TRA GENOCIDIO, PULIZIA ETNICA E STUPRI DI MASSA

Era l’11 luglio 1995 quando il generale Ratko Mladic entrò a Srebrenica, enclave musulmana che, dal 1993, era protetta dai caschi blu olandesi delle Nazioni Unite in cui si rifugiarono numerosi bosniaci in fuga dalla guerra. 

La fine del lungo assedio fu l’inizio della pulizia etnica nella città della Bosnia orientale, svuotata dei suoi 40 mila abitanti, musulmani bosniaci. Mentre Mladic dava ancora buffetti sulle guance dei bambini come una vecchia zia in visita e brindava con gli olandesi, i suoi soldati avevano già cominciato a raggruppare i ragazzi dai 14 anni in su e gli uomini in età militare. Si calcola che in quei giorni furono 8.372 gli uomini fucilati dai serbi e seppelliti nelle fosse comuni, e tra questi circa 300 uomini espulsi dagli olandesi dalla base Onu di Potočari. Il destino delle donne, dei bambini e degli anziani fu differente: a loro fu riservata la deportazione nella base di Tuzla. Le donne pagarono nel modo più crudele, soggette a continui stupri e violenze di gruppo.

L’equilibrio federalista ideato da Tito funzionò fino agli anni ’80, decennio che vide la rinascita del nazionalismo serbo guidato da Slobodan Milošević, incarnato nel mito della Grande Serbia etnicamente omogenea. Lo scontro fu inevitabile quando l’egemonia serba fu messa in pericolo dal processo di indipendenza avviato nella regione. La vera miccia fu la Bosnia Erzegovina, un territorio che costituiva una miscela inestricabile di etnie e religioni: bosniaci musulmani, serbi ortodossi, croati cattolici. 

Il sospetto reciproco che serpeggiava tra i vari gruppi etnici trasformò il conflitto politico in una guerra civile connotata da orrori che l’Europa non vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale. I fatti di Srebrenica e l’esistenza dei campi di concentramento costituirono un punto di svolta per la comunità internazionale. Nell’ottobre 1995 ci fu il cessate il fuoco e con la firma degli accordi di pace venne disegnata una nuova Bosnia Erzegovina: uno Stato bosniaco diviso in una Repubblica Serba e una Federazione Croato-Musulmana.

Cosa rimane oggi di questa tragica vicenda? Ci sono voluti 24 anni affinché il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2019 condannasse per crimini di guerra 62 serbi di Bosnia, tra questi anche ufficiali di alto grado. È il caso del già citato “boia di Srebrenica” Mladic, di Karadžić, leader politico dei serbi in Bosnia, e di Milošević: tutti e tre condannati per genocidio. 

Il tribunale dell’Aja ha riconosciuto i 12.000 stupri avvenuti nei Balcani come un atto politico e sistematico, tanto da classificarlo per la prima volta come crimine contro l’umanità. Le donne bosniache restano ancora oggi sofferenti di gravi problemi psicologici e ginecologici. 

Infine, la sentenza più dolorosa, indice dell’incapacità nel tutelare i civili da parte delle Nazioni Unite: la Corte d’Appello dell’Aja ha confermato la “parziale responsabilità” dei Paesi Bassi nella vicenda di Srebrenica, sancendo che i soldati olandesi avrebbero dovuto sapere che gli uomini erano in un reale pericolo di essere soggetti a torture o esecuzione. 

L’eredità più importante che dobbiamo raccogliere, tutelare e rafforzare è il riconoscimento delle sofferenze delle vittime e la condanna certa per tutti i carnefici. La giustizia deve consentire la rinascita dello Stato e della società martoriata dal conflitto interno. Tuttavia, il più negativo dei lasciti è quello che vede, dopo 25 anni, i rapporti tra Bosnia e Serbia ancora in subbuglio.

Pubblicato sul numero 59 della Falla, Novembre 2020