Non so se conoscete la figura di Vito Russo, attivista e storico del movimento LGBT+ americano. Era un uomo rasato, dagli occhiali in montatura di tartaruga, che negli anni ‘70 e ‘80 viaggiava per tutti gli Stati Uniti con un’enorme valigia piena di pizze 8 e 16 mm da proiettare nei circoli gay. Quelle che mostrava Vito, erano sequenze di grandi film, pellicole hollywoodiane che tutti avevano guardato e riguardato decine di volte e lì, tra una scena e una sequenza vista con superficialità e distrazione, evidenziava quello che sottinteso non era: personaggi gay, lesbici e bisessuali. 

Erano sempre stati lì, sotto gli occhi di tutti, benché secondari, nascosti, poco evidenziati, sottintesi o occultati, erano lì per gli occhi più attenti, per quei pochi che riuscivano a decifrare alcuni codici estetici o culturali: Paul Newman ne La gatta sul tetto che scotta, la coppia di omicidi in Nodo alla Gola, la Hepburn e la MacLaine in Quelle due.

Quello della rappresentazione delle persone LGBT+ nei vari media è un percorso che dalle ombre, da segni codificati, arriva a luce piena, fino a prendersi il proprio posto sotto i riflettori: i gay e le lesbiche hanno aggirato per anni le rigide regole della censura per arrivare a film dedicati, blockbuster, sit-com da prima serata, programmi per bambini. Per i videogiochi è lo stesso.

Quando ho aperto il mio blog Geekqueer.com e iniziato a scrivere il mio libro Videogaymes. Omosessualità nei videogiochi tra rappresentazione e simulazione (1975-2009), vi assicuro che le facce stupite non erano poche. “Saranno videogiochi sconosciuti e programmati da chissà quali nerd perversi” oppure “Sarà una moda degli ultimi anni!” mi dicevano, mentre mostravo a controprova Birdo di Super Mario Bros 2 del 1988 o Poison di Final Fight del 1991.

Ma le cose sono cambiate da allora. Negli ultimi 3 anni il tema è praticamente esploso e tutti i gamer hanno dovuto misurarcisi: non c’è sito o rivista che negli ultimi tempi non abbia affrontato, in modo accurato o ingenuo, il tema. Il discorso è diventato più organico e inclusivo sugli studi di genere: per esempio l’attenzione sulle figure femminili nella produzione è finalmente un aspetto che i game designer non possono ignorare, così come in una molteplicità di caratteri e in una rappresentazione sociale, l’assenza di caratteri LGBT+ viene vista giustamente come un’anomalia.

Pride Run arriva nel momento giusto, correndo, urlando, cantando e ballando proprio come deve fare chi rivendica il proprio posto: con orgoglio, determinazione e positività.

Quando Ivan Venturi mi ha parlato del progetto che aveva in mente e della squadra che stava mettendo su, mi è sembrato puntuale quanto necessario. Ci sono già state produzioni videoludiche a tema, ma quello che mi ha entusiasmato del progetto è stata l’aderenza reale e profonda con la comunità e la cultura LGBT+.

Giacomo Guccinelli, il game designer, ha svolto un approfondito studio sui character, attingendo a piene mani nell’iconografia e nella storia del movimento.

Ovviamente non volevamo fare qualcosa di pretestuoso, un gioco in cui i temi LGBT+ aderissero soltanto alla superficie, la nostra intenzione è sempre stata quella di celebrare ed esaltare le persone e la cultura che ci hanno portato a questo preciso momento storico: nel roster dei personaggi ci sono leader del movimento italiano e mondiale come Panti Bliss, Gloria Viagra, la nostra Marcella Di Folco, le Femen, la stessa Birdo, fino a un cosplayer di Sailor Moon…

Pride Run è una corsa che abbiamo iniziato trent’anni fa e arriva ora in un momento di rivoluzione, in cui i videogiocatori LGBT+ iniziano anch’essi a correre, ad aggregarsi, ad alzare la voce, a farsi sentire anche nei commenti di tutti gli articoli e post che sono usciti in questi giorni dall’annuncio di Pride Run.

Il videogioco è un mezzo che appartiene anche a noi, ha una storia che dobbiamo rivendicare e celebrare a gran voce, perché i videogiochi sono di tutti, ed è arrivato il momento che la community dei videogiocatori se ne faccia una dannatissima ragione.

Siamo qui, ci siamo sempre stati e nessuno ci toglierà il joypad dalle mani. Allora, chi vuole correre insieme a noi?

Foto: PrideRun