Condensare in un’ora e mezza le molte vite della Vargas è un esercizio difficile, ma le due registe di Chavela ne restituiscono la poesia senza lasciare nulla indietro. L’incanto di Chavelita folgora Catherine Gund nel 1991, quando la videomaker australiana decide di andare ad ascoltarla, senza sapere chi fosse, nel concerto che inaugura il ritorno in scena della cantante costaricana. A volte sta tutto nel cogliere una buona occasione: tormenta tutto lo staff per avere un’intervista e alla fine ci riesce. Una chiacchierata da sobria, rarità assoluta per la sacerdotessa della disperazione e della tequila.

Così quel dialogo, lieve e altissimo, finisce in un archivio per oltre vent’anni. Finché l’anno scorso Catherine, con la compagna di avventure Daresha Ki (molti lavori insieme, dedicati al mondo Lgbt, l’ambiente, le trasformazioni sociali) decidono di fondere queste parole con una montagna di materiale d’archivio. E altre interviste alle donne e gli uomini che hanno avuto il piacere di condividere il cammino di Chavela.

Curioso che l’essenza della messicanità sia una donna che in Messico ci arriva a 17 anni, che non indossa gonne, gioielli, vestiti coi fiocchi, che nessuno ha mai visto interpretare le movenze civettuole dell’avanspettacolo tradizionale. Niente mani sulle anche e testa che dondola ammiccante: la Vargas rompe tutti gli stereotipi della cantante ranchera, ma per un magnetismo inspiegabile convince tutti e arriva anche in tv.

Una voce tutt’altro che cristallina, anzi, “un cannone tremendo”, una donna che nasce con la ferita della vita, che innamora raccontando olvido, dolore, morte. Non sapeva che farsene degli ornamenti per la sua canzone disperata, piena di “giorni in cui te ne andasti” o mi lasciasti, così adorata da tutti per il dolce contrappasso di sintetizzare la festosità messicana tingendola di nero.

Nacqui cantando”, diceva sempre, e in effetti in chiesa inizia a intonare le poche melodie concesse a otto anni. Poi dalla chiesa viene cacciata: giovanissima, non ha alcuna voglia di stare negli stracci che la povera famiglia può permettersi e si fa notare, la niña rara, con le sue movenze maschili, il suo disinteresse per le bambole. La paura di non integrarsi nella società rurale spinge i genitori a nasconderla quando ricevono visite.

Sente la chiamata per il Messico, sognato grazie alle poche immagini che il cinema di paese regalava. “Mi afferrò e mi disse: farò di te una cantante”. Se la vita fino ad allora non le aveva certo riservato una strada in discesa, a Città del Messico è una coincidenza a rendere Chavela la piccola Marìa Isabel: la moglie di José Alfredo Jimenez – uno dei più grandi cantautori di sempre – la scopre e le propone (o impone) di prestare la voce alle sue canzoni. Di certo fu la sua migliore interprete, per il sodalizio umano che ebbero, perché sapeva cosa c’era dietro ai suoi testi, spesso dedicati a donne che Chavela seduceva per lui.

Costruisce la sua personalità in un mondo maschilista e misogino, dove una lesbica non aveva luogo, più forte e più maschile e più ubriacona di qualunque altro contendente. Non fece mai mistero della sua sessualità ma non diceva apertamente di amare le donne, pur non smettendo mai da farlo, sotto il naso di tutti. Riti ipocriti di una società in cui tutto va bene, purché sia sul palco: “fai quel che vuoi, ma non dirlo”. Intanto incontra Frida, “una visione, un essere non di questo mondo” con cui consumò “l’amore più devoto e ardente del mondo”. Dopo pochi mesi si allontana in punta di piedi: “è impossibile legarti a nessuna vita, l’amore eterno non esiste, non si vive che l’oggi”.

E poi Hollywood, le feste con Rock Hudson e Clark Gable, una chitarra e la sua voce che accompagna il ricevimento nuziale di Elizabeth Taylor. Una notte sotto le lenzuola con Ava Gardner e chissà quali amanti famose – mogli di politici, intellettuali, magnati – che confidarono nel suo riserbo. Luci e cocktail che non scacciano mai la sua solitudine, compagna più fedele insieme alla bottiglia.

Sola e ingannata dai suoi agenti, quando muore l’amico Jimenez scompare in un paesotto dell’entroterra con la sua cagnetta Vicenta, contando sulla generosità dei suoi amici per mangiare. Aveva incantato mezzo Messico, sì, ma come raccontano le amiche, il portafogli era vuoto. Arrivano a crederla morta.

Eppure, superati i settant’anni, nessuno è in grado di resisterle, quella “prima donna” che passeggia al mercato senza comprare neanche una mela. Le registe rintracciano le sue ultime fidanzate, con le quali “si bevono praticamente tutti i fiumi della regione”, mettendo alla prova il suo eroico fegato. Gira ancora con la rivoltella, Chavela, e insegna a sparare al figlio appena dodicenne della sua ultima amante.

Poi qualcuno la nota nel piccolo club del paese. I testimoni raccontano ancora commossi: “Facciamola cantare”. “Va bene, è viva, ma da quant’è che non calca i palchi, sarà sempre ubriaca…”. Invece lei indossa il suo poncho, sale in scena e ipnotizza tutti per oltre un’ora. Distribuisce il suo dolore agli ascoltatori, e rinasce. Almodovar scopre che il mito non è affatto scomparso, la trascina a Madrid, la fa seppellire di applausi e le organizza delle serate all’Olympia di Parigi: il suo Messico la adorava, ma non le aveva mai concesso un gran teatro. Così arriva il Bellas Artes e altri vent’anni di concerti, seconda (o terza?) gioventù. Lascia la tequila – “si ubriacava dell’alcol altrui” – e a 81 anni smette di rifiutare la parola con cui la insultavano. È la donna più importante per la comunità lesbica del Messico e non solo, non c’è nessuna che non la conosca e non la veneri. Il suo canto è dedicato a tutte le donne del mondo: madri, amiche, sorelle, amanti. E sopravvive oggi alla sua morte, che tentò di consumare cantando davanti al pubblico madrileno, ma avvenne invece in una casetta circondata dagli affetti.

Le immagini intime, messe insieme con semplicità e saggezza, bastano a sé stesse per raccontare una esistenza così ricca. Le registe non osano oltre, ma non c’era bisogno di sperimentare niente di più di quel che un documentario vecchia scuola offre, per appassionarci a questa voce brusca e quest’animo gentile.

Foto: Some Prefer Cake 

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Programma del Festival Some Prefer Cake