Ho sempre amato definirmi la regina del coming out: ho cominciato nel 1991, a 16 anni, e non mi sono mai fermata. Tra i tanti, il coming out che mi è rimasto nel cuore con più tenerezza è quello che feci con il mio adorato nonno materno. In realtà, declinare il verbo “fare” alla prima persona singolare non gli rende giustizia. Perché fu una conversazione che avvenne a più riprese, in un certo lasso di tempo, e che fu sempre lui a iniziare – forse l’unico caso nella mia vita di lesbica out & proud.

Mio nonno, nato nel 1913, non aveva potuto frequentare le scuole superiori. Ciò nonostante, era una persona intellettualmente vivace, che leggeva molto, pur essendo politicamente piuttosto conservatore rispetto al resto della famiglia. Era fieramente anticomunista e votava i repubblicani di La Malfa. Insieme a mia mamma, si occupava con amore e dedizione di mia nonna, un peperino dal carattere fortissimo, costretta alla prigionia domestica da un complesso di malattie ortopediche che l’avevano paralizzata, oltre che da una sostanziale cecità.

Con l’avanzare degli anni, faticava a procurarsi dei libri decenti da solo, per cui, dalla prima adolescenza in poi, avevo preso a passargli tutte le mie scoperte letterarie. In alcune – che io cercavo spulciando le librerie della mia città natale come un segugio –  comparivano personaggi LGBT+, per la maggior parte lesbiche. Io speravo di riuscire a mandargli un message in a bottle, perché mia mamma mi aveva caldamente sconsigliato di fare coming out con i nonni, temendo che loro non capissero e che io, di conseguenza, ne rimanessi distrutta. Gli diedi da leggere Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle stop, uscito in Italia in seguito al successo del film omonimo, che lui stesso mi aveva accompagnata a vedere per la quinta volta in un cinema di seconde visioni. A differenza della pellicola, nel romanzo la storia d’amore tra Idgie e Ruth era esplicita. Mio nonno era uno dalla lacrima facile, nonostante fosse all’apparenza tutto d’un pezzo, con la cravatta anche per andare a comprare il pane. Forse l’emotività delle lacrime era una – relativamente – innocua concessione alla totale costipazione emotiva richiesta agli uomini della sua generazione. Ebbene, si commosse nel raccontarmi il passaggio che più l’aveva colpito: Idgie che manda il figlio non biologico Buddy jr nel bordello sul fiume Mississippi gestito dalla sua amica Eva, perché lei lo introduca alle meraviglie del sesso, come aveva già fatto con lei quando era una ragazzina in lutto per la morte del fratello preferito. Io incassai quel momento come una piccola vittoria e per un po’ non se ne parlò più.

Un paio d’anni dopo, eravamo ormai a metà anni ’90, avevo 20 anni, e lui più di 80, ero seduta sulla poltrona di camera loro mentre i nonni si svegliavano dal pisolino pomeridiano. Chiacchieravamo di libri, lui aveva finito di leggere l’ultimo giallo di Patricia Cornwell che gli avevo passato, La fabbrica dei corpi. La protagonista Kay Scarpetta, che ha fatto la fortuna di Cornwell in una lunga serie di romanzi, è un’anatomopatologa e ha una nipote geniale, Lucy, palesemente lesbica, senza possibili ambiguità. Mio nonno mi chiese, di punto in bianco: “Ma tu sei come Lucy?”. Io, molto emozionata, risposi di sì. Lui proseguì: “Ma ti senti un uomo, o vorresti essere un uomo?” “No, nonno. Voglio solo fare più cose di quelle che sono concesse oggi alle donne”. Lui, che aveva passato i miei anni d’infanzia insegnandomi indifferentemente come si fa un circuito elettrico, come si fanno le pulizie, come si sputa dai ponti, come si cuoce la pasta, annuì.

Non ne parlammo più in modo così esplicito, considerando l’informazione assorbita. Rimasi la sua nipote preferita fino alla sua morte, avvenuta tre anni dopo, nel 1999.

pubblicato sul numero 39 della Falla – novembre 2018