Era un giorno che mi piace ricordare autunnale, in un momento sospeso tra i primi anni delle medie, a metà tra passioni infantili e un’aggressiva azione della pubertà, sfogata già da tempo in orgasmi che solo da poco avevano assunto consistenza. Un pomeriggio tranquillo in una casa vuota, appoggiato al divano e con la tv accesa, mesi passati nei miei ricordi a consumare le pellicole dei Vhs di Panorama, religiosamente collezionati da una zia. Poco tempo prima, proprio con quella zia e il suo compagno, facemmo partire, su una pellicola più anonima di quelle che conoscevo e identificavo così bene, Una strega chiamata Elvira. Uno dei film più meravigliosamente trash che gli anni ‘80 abbiano prodotto e che diventò poi per me una pietra miliare. La prosperosa protagonista, interpretata da Cassandra Peterson, irruppe nello schermo scollacciata e piuttosto volgare, almeno agli occhi degli adulti lì presenti, che, nell’imbarazzo generale, fermarono la visione a meno di dieci minuti dall’inizio sostenendo arrossati che fossi troppo giovane per andare avanti. Proprio non capivo il punto. Sapevo bene a cosa si riferissero, ma l’avvenente protagonista non aveva esercitato su di me alcun fascino erotico, malgrado ne stessi apprezzando la personalità spregiudicata. Eppure, proprio in quell’autunnale pomeriggio solitario di non molto successivo, capii ironicamente sia i loro timori che la loro infondatezza.
Non vissi alcun giudizio, alcun dramma, mi sentii anzi più completo, più a mio agio e forte di una consapevolezza che mi aveva arricchito. In questo, che ancora il mio cuore rivendica come una fortuna, non so cosa giocò a favore di un’accettazione così immediata; non mancarono poi coming out più complessi, quelli fuori da me, ma che ormai, per quanto spiacevoli, mi scivolarono addosso proprio perché il più importante era andato alla perfezione: quello con me stesso.
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