LE LESBICHE ITALIANE E IL FEMMINISMO DELLA DIFFERENZA
Da qualche anno non vedo più emergere il cosiddetto femminismo della differenza, nemmeno in Italia, dove pure la corrente di Luisa Muraro è stata forte ed egemone (dagli anni Ottanta ai Novanta, soprattutto), ma differenti femminismi, e soprattutto una pratica femminista, ma anche, mi permetto di dire, lesbofemminista, postcoloniale, cyborg, queer, intersezionale.
Abbiamo vissuto anni di dibattito femminista su differenza fra uomo e donna e differenze fra donne (dove classe e razza avessero il proprio ruolo), essenza e-o costruzione. Al momento, le uniche soluzioni appaiono quelle che ci pongono di fronte ad azioni politiche nel reale: mixité con migranti, trans gender e sex e tutte le categorie comprese nelle differenze create dal potere, come per me quella uomo-donna.
Esistono differenze, che hanno declinazione storica e si intrecciano con quelle di razza e classe, ma non esiste LA differenza, credo che questo debba essere ormai un punto fermo del femminismo.
Nel dirsi lesbica ed ebrea, sostiene Liana Borghi nel 1986, Adrienne Rich “si fa carico di un’identità che ci hanno insegnato a disprezzare; darsi un nome è quindi rifiutare di restare sommerse in una coscienza sociale che livella le differenze, che dando per scontate disparità e disuguaglianze tacendole le nega”.
Anche la ricezione italiana di Monique Wittig è stata importante, perchè Wittig dà delle donne una definizione come classe, non come genere: le donne classe oppressa all’interno del contratto sociale eterosessuale, e le lesbiche schiave fuggitive rispetto a questa classe e a quest’ordine. Nel 1985, leggiamo un commento anonimo sul Bollettino del Cli alla traduzione del testo di Monique Wittig The straight mind (1978), anni prima rispetto alla ricezione di Wittig fatta, per esempio, da Judith Butler: “Le lesbiche non sono delle donne, conclude provocatoriamente Wittig, utilizzando la tipica difesa attiva del pensiero eterosessuale per indurre a una ridefinizione fuori del pensiero straight sia della parola donna che della parola lesbica”.
“Donna è una finzione dell’uomo. Wittig ha ragione, ma aggiungerò che dirsi donna ha talmente poco senso che ogni donna che aspira all’umanità non saprebbe identificarsi né tantomeno solidarizzare con la categoria donna. Comprendo molto bene che Wittig dica che non è una donna ma una lesbica perché la parola donna ci rimanda alla biologia o alle differenze […]” Queste le parole di Nicole Brossard, durante la presentazione romana del suo libro La lettera aerea nel 1990.
Infine, ancora, le parole di Liana Borghi: “Avevo sentito Rich leggere a Utrecht Note per una politica del posizionamento, che ragionava sull’identità a partire dalla nostra geografia più prossima, che è un corpo marcato dalla costruzione (razza, classe, sessualità…) in un dato spazio-tempo. Chi di noi era d’accordo con Wittig, che lesbiche non si nasce ma si diventa, approvava il costruzionismo di queste politiche del posizionamento “. Parlando di ricezioni teoriche anni ‘80, da un numero di Towanda!, rivista lesbica, nel 2003.
Le lesbiche italiane non sono mai state essenzialiste.
pubblicato sul numero 39 della Falla – novembre 2018
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