IDAHOBIT come lotta per le differenze
di Giuseppe Seminario
Corre l’anno 2005 quando, su iniziativa dello studioso e attivista francese Louis-Georges Tin, viene promosso il primo International Day Against Homofobia: la ricorrenza sostiene, attraverso azioni dal basso organizzate dalle realtà presenti nei diversi territori, il contrasto alla discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Diviene in seguito IDAHOBIT, grazie all’aggiunta nella sigla della transfobia, nel 2009, e della bifobia, nel 2013; operazione attuata per evidenziare e portare all’attenzione dell’opinione e delle amministrazioni pubbliche le ulteriori disparità di trattamento che tanto le persone trans*, quanto quelle bisessuali, vivono quotidianamente nelle proprie vite. Dalla sua proclamazione, la rilevanza a livello mondiale della giornata è cresciuta sempre di più, con l’Unione Europea promotrice ufficiale a partire dal 2007 e 132 paesi nel mondo – tra i quali 37 in cui l’omosessualità è illegale – che nel 2016 hanno visto sul proprio territorio organizzare azioni legate alla ricorrenza, tra campagne online e manifestazioni di piazza. Una giornata che cade, ormai da tredici anni, in maniera non casuale, il 17 maggio.
È proprio un 17 maggio, del 1990 per essere precisi, il giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità elimina definitivamente dall’elenco delle malattie mentali l’omosessualità, da quel momento definita ufficialmente “una variante naturale del comportamento umano”. Certamente un passo in avanti rispetto al “disturbo sociopatico della personalità” descritto nella prima edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM). Redatto nel 1952 dall’American Psychiatric Association (APA), il DSM-I subisce diverse revisioni prima del 1987, anno nel quale la depatologizzazione dell’omosessualità in tutte le sue sfaccettature viene pienamente sancita sul suolo statunitense, dando il là all’agenzia dell’ONU. Chi aveva un orientamento non eterosessuale, fino a quell’istante, poteva essere liberamente definito “malato”. Una conquista importante, frutto di anni di lotta di un giovane movimento LGBTI sul piano medico-scientifico, che svela il ruolo che quest’ultimo ha avuto nel marcare una differenza rispetto alla normalità eterosessuale. Ruolo che continua ad avere se guardiamo al transessualismo e all’intersessualità, ancora oggetto di medicalizzazione forzata in molte parti del mondo. Un piano che inevitabilmente si è intrecciato fin da subito con quello culturale e politico, diventati campi di battaglia principali per la lotta contro una società discriminante in cui l’omofobia non è normata ma si fa norma, dettata dalla scienza e dalla legge.
Infatti, quando a Ginevra l’Agenzia dell’ONU ratifica il depennamento, non sono ancora trascorsi ventuno anni dalla fatidica notte del 28 giugno 1968 nella quale trans, travestite, butch e frocie presero coraggio e reagirono all’ennesima violenta retata della polizia, ormai diventata la routine allo Stonewall Inn, in una New York in cui l’essere queer era perseguibile come nel resto degli Stati Uniti. Una bottiglia viene lanciata: per la prima volta lo scontro diventa fragoroso, dirompente e la resa si trasforma in rivalsa, portando l’anno seguente a marciare per le strade della Grande Mela migliaia di persone, considerate ufficialmente ancora “malate” e “criminali”. Anni in cui si dipana il percorso che porta attivisti e attiviste del movimento a lottare per veder riconosciuti i propri diritti, anche sul piano medico, trasformato ben presto in un terreno di scontro con la frangia più integralista dell’APA (American Psychological Association) che ritiene priva di basi scientifiche la proposta della maggioranza degli psichiatri e delle psichiatre d’America.
I piani del dibattito, più o meno nello stesso periodo, si intersecano anche in Italia, dove la prima manifestazione pubblica del movimento LGBT+ nostrano – che ha visto la luce poche settimane prima – coincide con il “Congresso internazionale sulle devianze sessuali”, in programma a Sanremo il 5 aprile del 1972. A organizzarlo è il Centro Italiano di Sessuologia che si ispira a principi cattolici. Un gruppo di militanti del F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), capitanato dal mai troppo compianto Mario Mieli, si ritrova per manifestare contro le teorie riparative promosse da psichiatri e psicologi aderenti che, ignari di ciò che avrebbe scatenato, chiedono l’intervento delle forze dell’ordine. L’arrivo della polizia trasforma il sit-in di quaranta persone in un gesto dirompente per l’epoca, grazie anche all’ironia delle pratiche e degli slogan (“Psichiatri, siamo venuti a curarvi”) e dall’onestà delle rivendicazioni riassunte dalla frase “Sono un omosessuale e sono felice di esserlo”, pronunciata da Angelo Pezzana dal palco. Agli attivisti e alle attiviste che in quei giorni scendono in piazza è già ben chiaro che riconoscimento collettivo e benessere personale siano gli obiettivi di una battaglia culturale e politica a tutto tondo: una battaglia che investe il privato e il pubblico, senza soluzione di continuità; che passa attraverso la presa di parola e la denuncia delle discriminazioni fisiche, verbali o psicologiche, sempre pronte a emergere alla prima occasione.1 Una battaglia iniziata allora e che prosegue ancora oggi, al tempo dei matrimoni e delle unioni civili.
Il 2016 sarà di fatto ricordato in Italia come l’anno della legge Cirinnà, “una svolta di civiltà” per usare le parole del Ministro della Giustizia Orlando, che ha istituito le unioni civili proprio nei giorni a ridosso dell’IDAHOBIT, riconoscendo senza alcun dubbio diritti a una parte della popolazione alla quale erano stati negati. Ma è stato anche l’anno in cui il Parlamento italiano ha evitato “che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio”, come ci ha ricordato il caro Angelino Alfano all’indomani della discussione in Senato. Si sono lasciate così sul campo di battaglia le famiglie arcobaleno e la stepchild adoption, oltre alla dignità di una comunità che in quella legge aveva visto un porto dal quale salpare verso un orizzonte di uguaglianza. La nave si è rivelata fallata, alla fine dei conti, non tanto nei diritti acquisiti – che alla fine sono stati quasi tutti raggiunti e le cui lacune residue vengono colmate grazie ai tribunali – quanto nello scenario che ci ha rivelato una classe politica incapace di empatia. Capace, invece, di lasciarsi andare alle discriminazioni più becere, di ricorrere alla svalutazione biologica per sancire una differenza legislativa, di riportare l’Italia ai tempi di Sanremo: come se quarantaquattro anni di distanza fossero equivalenti a una manciata di secondi, come se l’omosessualità fosse ancora un disturbo da nascondere e da vivere tra timori e imbarazzi.
Gli ultimi dodici mesi ci hanno tuttavia ricordato che per rendere un paese più inclusivo non basta una legge che riconosca le relazioni tra persone dello stesso sesso. Serve un cambiamento culturale profondo, che non lasci indietro nessun*, come successo nel recente passato; che metta al centro le istanze di una comunità ampia e variegata; che tenga insieme tutti gli aspetti che contribuiscono al benessere di singoli e singole; che passi attraverso una legge che tuteli le persone gay, lesbiche, bisessuali, trans e intersessuali dagli attacchi omolesbobitransfobici, all’ordine del giorno qui e altrove; che lavori sui differenti stigmi che colpiscono le persone LGBTI, dalla sieropositività alle discriminazioni sul posto di lavoro.
Quindi ben vengano giornate come l’IDAHOBIT, momenti in cui avere voce e visibilità, con l’augurio che un giorno qualsiasi differenza diventi una ricchezza condivisa. Sarà una lotta dura contronatura, ma ce la faremo.
1 Per un approfondimento sui moti di Stonewall e sul sit-in di protesta del F.U.O.R.I. si veda Pride: non c’è libertà senza rivolta di Elisa Manici.
Perseguitaci