PERCHÉ LA COMUNICAZIONE PER ORA FUNZIONA E COSA RISCHIA
Salvini è quello che fa la voce grossa, dicevo. È lui il più aggressivo: spara soprattutto contro i migranti e l’Europa, che sono i suoi bersagli preferiti. Ma non solo: contro la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, contro i ladri, gli evasori e persino contro quelli che imbrattano le strade e disturbano la quiete. Salvini è contro tutti i “cattivi” insomma, che minacciano, in proporzioni e con gravità diverse, la nostra incolumità, i nostri beni e la nostra famiglia, la nostra sicurezza personale.
Sbaglia però chi pensa che Salvini stia tutto nel linguaggio dell’odio, sbagliano i suoi detrattori a selezionare, dalla sua comunicazione, solo le parole “contro”. Se scorriamo i suoi tweet quotidiani, ad esempio, vediamo che non c’è giorno in cui lui non mostri la sua faccia più paciosa, in senso letterale proprio, perché l’esposizione continua di quel volto paffuto e sorridente è il modo più facile e immediato di smentire chi lo dipinge come “fascista”, “violento”, “razzista”. Si pensi alle numerose fotografie (spesso selfie) in cui appare circondato da anziani, donne e bambini che lo cercano, lo abbracciano; si pensi agli abituali riferimenti, nei suoi discorsi, ai propri figli e quelli altrui. Per non parlare dei continui tweet di buongiorno e buonanotte, sempre con parole affettuose (“un bacione”, “vi voglio bene”, “amici”) e spesso corredati da foto di piatti prelibati, puntualmente descritti come premio per il duro lavoro. Come potrebbe essere davvero “violento”, “razzista” o “fascista” uno con quella faccia? Si chiedono le persone. Come potrebbe essere “cattivo” uno che vuole difendere noi e i nostri figli? E crescono i consensi.
A volte – più di rado, ma succede – anche Di Maio fa la voce grossa. Come quando, a fine ottobre 2018, ha accusato ignoti (ma l’insinuazione riguardava gli alleati della Lega) di aver manomesso a sua insaputa (ricordiamo la presunta “manina”) il testo del decreto fiscale, per ampliare le maglie del condono contro il volere del M5s. Anche in quel caso, ogni contrasto è stato subito non solo sciolto ma liquidato come banale “fraintendimento” dallo stesso Salvini, che per l’occasione ha assunto il ruolo rassicurante che di solito tocca a Di Maio o Conte. Un gioco delle parti insomma: ora l’uno ora l’altro, ora forte ora piano.
Ma tutti questi andirivieni non dovrebbero essere un difetto di comunicazione, invece che un pregio? Non dovrebbero apparire, secondo i casi, come sintomi d’instabilità (gli alleati non vanno d’accordo) o inautenticità (fingono di andare d’accordo, ma non è vero)? Non dovrebbero minare la fiducia nel governo, invece di aumentarne il consenso?
Come sempre, in comunicazione, tutto ciò che si fa e si dice è relativo non solo a chi lo fa e lo dice, ma al contesto e al momento. Va ricordato, dunque, che mentre scrivo il governo si trova ancora nella cosiddetta luna di miele con l’elettorato: a pochi mesi dal suo insediamento, gli elettori sono disposti a concedergli il credito del “è ancora presto, lasciamoli lavorare”. Per Salvini e Di Maio, poi, il credito potrebbe durare più che per altri, perché i loro partiti si sono proposti come rottura con il passato, come svolta e cambiamento: tutti sanno che cambiare è più difficile che mantenere lo status quo. Perciò, anche se i media e l’opposizione strillano che il cambiamento non c’è, molti preferiscono sperare ancora.
È in questo quadro, dunque, che la polifonia governativa riesce a non apparire né incoerente né mendace, ma al contrario serve a tenere insieme tipi disparati di elettori: dai più rabbiosi ai moderati, dagli estremisti al centro. Sono proprio le dissonanze di comunicazione fra i due alleati, per ora, ad ampliare il loro consenso, a renderlo ancora più trasversale e acchiappatutti di quanto già non sarebbe ciascuna parte presa singolarmente.
Cosa rischia allora questo governo? Anzitutto ciò che rischiano tutti: la prova dei fatti, perché alla lunga le promesse mancate presentano il conto. È già accaduto a Renzi, che si gonfiava di ottimismo mentre la crisi imperversava e la povertà cresceva. Ma oggi c’è un rischio aggiuntivo, purtroppo, che sta nell’aggressività di molti toni e modi, nell’abitudine all’invettiva e persino nell’insistenza dei media sul presunto “fascismo” e “razzismo” di Salvini. In realtà aggettivi come “fascista” e “razzista” vorrebbero liquidarlo in modo sprezzante, ma la loro ripetizione esagerata rischia non solo di togliergli forza spregiativa, ma di normalizzarli e valorizzarli. Un po’ come accade al turpiloquio, che a furia di essere usato non impressiona più nessuno, tanto che spesso diventa un vezzo. Ci toccherà allora assistere alla normalizzazione del discorso sul fascismo e sul razzismo (se non ai due fenomeni), com’è accaduto al turpiloquio in politica? Speriamo di no: le implicazioni sarebbero ben più gravi.
pubblicato sul numero 40 della Falla – dicembre 2018
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