Lo scorso 14 marzo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciandosi su due diversi ricorsi, uno belga e uno francese, riguardanti due donne musulmane convinte di essere state discriminate perché i rispettivi datori di lavoro avevano vietato loro di portare il velo, ha deliberato: “il divieto di indossare un velo islamico, se deriva da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”. Conclude poi precisando: “Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.”*

Vorrei condividere qui alcune riflessioni sul perché dovremmo sentirci chiamate in causa e dovremmo mobilitarci in quanto donne, lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer. Procedo con ordine.

La prima parte delle conclusioni della sentenza stabilisce che una normativa aziendale neutrale non costituisca una discriminazione diretta. A questo proposto, mi domando: se un/a dipendente indossasse un braccialetto con i colori rainbow in ufficio, sarebbe legittimo chiedere di rimuoverlo perché espressione di una visione politica a favore dei diritti delle persone LGBT+? Se un/a dipendente avesse tatuato su parti visibili del corpo simboli o frasi potenzialmente riconducibili ad appartenenze politiche, filosofiche, religiose, sarebbe legittimo richiederne la copertura, pena il licenziamento? Cosa accadrebbe se un/a dipendente un giorno si presentasse a lavoro indossando un abbigliamento del genere opposto al proprio? Costituirebbe un turbamento della neutralità aziendale nel rapporto con i clienti? L’elenco delle domande potrebbe continuare all’infinito. Quello che ritengo emerga chiaramente è la criticità dell’associazione di un segno al suo significato politico, filosofico o religioso; un’operazione che considero tutt’altro che neutrale, ma piuttosto arbitraria e dettata da visioni politiche e culturali ben precise.

La seconda parte della sentenza rivela più da vicino tutta la sua problematicità politica. Inizialmente, sembra riconoscere la possibilità che un obbligo apparentemente neutro dell’azienda possa rappresentare una discriminazione indiretta, se comporta un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata fede, religione o ideologia. Nel caso specifico, inerente alla libertà di due donne di portare il velo sul luogo di lavoro, sembrerebbe innegabile lo svantaggio subito dalle donne musulmane di fronte a una regola aziendale che vieta loro di indossare qualsiasi segno religioso, ponendole di fronte alla difficile scelta fra le proprie convinzioni personali e le proprie aspirazioni professionali. La Corte conclude, però, affermando che l’obbligo aziendale non costituisce una discriminazione se giustificato da una finalità considerata legittima come il perseguire una politica neutrale nei rapporti con i clienti con mezzi appropriati e necessari. Ecco nuovamente il nodo dell’esistenza di un’oggettiva neutralità.

Partendo dai casi giudiziari, mi domando: può essere considerato neutrale un simile divieto in una società occidentale fortemente islamofobica? I risultati di uno studio del 2016 sul fenomeno dell’islamofobia nei paesi europei indicano, ad esempio, che il 69% degli italiani ha un’opinione negativa dei musulmani. Non possiamo non prendere atto che la retorica e le strumentalizzazioni mediatiche legate agli attacchi dell’11 settembre 2001 prima e all’ascesa di Isis poi, abbiano segnato profondamente la percezione dell’opinione pubblica occidentale nei confronti dell’Islam. Paura e stigma hanno preso il sopravvento, facendo prevalere un ritratto dell’Islam come religione violenta e intrinsecamente diversa da quella cristiana; in primis, per quanto concerne l’oppressione delle donne, di cui il velo rappresenta il simbolo più evidente. A questo proposito, è importante anche ricordare che in Italia i più agguerriti sostenitori di queste tesi sono spesso in prima fila quando si tratta di negare l’autodeterminazione delle donne se scelgono di abortire o quella delle persone LGBT+ se decidono di creare una famiglia con il/la proprio/a partner. Le coincidenze sono sicuramente da escludere.

Tornando alla sentenza, bisogna sottolineare che la Corte di Giustizia europea ha la funzione di garantire che il diritto dell’Ue venga interpretato e applicato allo stesso modo in ogni paese europeo e che i paesi e le istituzioni dell’Unione rispettino la normativa. La sentenza costituisce, dunque, un parere che non vincola le decisioni finali dei giudici degli Stati membri, spetterà ai giudici belgi e francesi risolvere le rispettive cause, conformemente però alla decisione della Corte. Penso sia necessario sottolineare il rischio che un’istituzione come la Corte di Giustizia Europea metta il sistema giudiziario degli Stati membri in condizioni di considerare la neutralità delle politiche aziendali come un dato oggettivo. Tutto ciò svela molto della nostra Europa: a parole terra e paladina dei diritti, nei fatti molto restia a concederne pieno godimento effettivo a tutte quelle soggettività che non sono: uomo, bianco, eterosessuale, cristiano, cittadino.

Per questo motivo, la rivendicazione delle donne musulmane europee di indossare il velo negli spazi pubblici – inclusi i luoghi di lavoro – non può essere una voce isolata e un’unica lente per leggere le implicazioni politiche che derivano dalla sentenza. È, di conseguenza, necessario e urgente che tutt* coloro che si battono per l’autodeterminazione, quindi, prima di tutto, gruppi o collettivi femministi, LGBT+, queer, siano capaci di leggere nel caso specifico le potenziali dinamiche di oppressione delle libertà individuali e, quindi, di dare vita a mobilitazioni comuni, aprendosi alla relazione e superando barriere spesso più ideologiche che reali.

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si è espressa su un chiarimento richiesto dalle Corti Costituzionali del Belgio e della Francia sull’interpretazione della direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE).

pubblicato sul numero 25 della Falla – Maggio 2017