TRA COLONIALISMO E POSTCOLONIALISMO

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Qualcuna dice che è amnesia, altre dicono che è più una sorta di eclissi: di fatto il colonialismo dà alla nostra mentalità un’impronta fortissima. La plasma e la irrora, ogni giorno, a tratti in modo visibile, a tratti in modo nascosto.

Per molti anni gli storici hanno parlato di amnesia – ossia che ci eravamo dimenticate della nostra esperienza coloniale – e poi finalmente qualcuna si è permessa di dichiarare con forza che non si trattava affatto di questo, ma che “italiani brava gente” aveva a che vedere con una minuziosa selezione di ciò che l’Italia poteva (permettersi di) ricordare.

Poi, chi si è messa a riflettere su ciò che si nascondeva dietro alla memoria pubblica ha parlato di eclisse, dando a intendere che anche quando il colonialismo sembra non c’entrare nulla, la mentalità coloniale è sempre presente: struttura il modo in cui osserviamo il mondo, e noi stessi.

Oggi guardiamo alle migrazioni e al terrorismo internazionale (talvolta mettendoli in una connessione deterministica che se fosse fatta con  l’Europa ci equiparerebbe tutte al massacratore di Utoya) e pensiamo che quelli che stanno oltre il Mediterraneo sono una massa di uomini-automa (soprattutto uomini, come se le donne non contassero nulla) dediti alla violenza e ispirati dalla cattiveria fanatica. Noi, invece, siamo quelli mossi da individualismo positivo e da una generalizzata benevolenza. Noi siamo coloro che difendono le libertà, e loro invece sono o sottomesse o carnefici senza redenzione.

Quelle stesse figure hanno identificato per secoli tutte le donne musulmane come vittime, gli uomini neri come maniaci sessuali (come ci racconta ironicamente Bello Figo) e tutte le donne nere come sessualmente accessibili. Immagini ci vengono da un sapere (ahimé) condiviso, che dalla colonia arriva alla piantagione americana, ripassa per i ghetti europei e si materializza oggi nei lager detentivi voluti dall’Europa in Italia, e dall’Italia in Libia.

Ora, se nell’era Renzi, come in quella Salvini, si guarda di traverso un’atleta nera che rappresenta l’Italia, o la ministra nera che “pretende” di presentare e rappresentare l’italianità agli italiani, o il richiedente asilo che chiede (e ha diritto al) rifugio sulla base di leggi internazionali, si chiudono i porti o addirittura si spara su uomini e donne migranti, perché non hanno il diritto di occupare il nostro spazio, una relazione con quel sapere condiviso c’è. Dirò di più: tale violenta negazione di una nostra relazione con ciò che definiamo “non alla pari” e che sta “al di là del mare” è inscindibile dall’idea che l’Italia si senta bianca e superiore.

Infatti, nonostante gli italiani siano stati oggetto di razzismo nelle loro secolari diaspore verso il resto dell’Occidente, la loro storia è profondamente segnata dall’essere, contemporaneamente, oggetti di razzismo e razzisti verso l’altro. Per poter essere razzisti, gli italiani e le italiane si sono immaginati omogeneamente bianchi – omogeneamente eterosessuali e tutti cisgender. La nostra bianchezza ha un genere, un orientamento, una religione e una classe abbastanza specifici, per quanto nel discorso dominante decliniamo queste componenti come più ci fa comodo.

Malgrado il razzismo antimeridionale – bell’eredità del colonialismo interno che ha portato all’unità nazionale – sia ancora così virulento, d’un tratto si diventa tutti bianchi – compresi i meridionali – quando si può facilmente identificare in qualcun altro il nostro alter ego razziale.

Il titolo di questo mio contributo richiama l’immagine della frontiera: la frontiera tra Nord e Sud del mondo, tra Occidenti e Orienti, tra bianco e non-bianco, tra civiltà e barbarie, tra i miti della nostra superiorità e le mitologie della loro inferiorità.

La frontiera in realtà non c’è, e tutta questa ossessione a stabilire linee di divisione netta sembra suggerire che tanta distanza con i nostri alter ego razzializzati non ci sia, così come non c’è distanza tra la nostra esperienza coloniale e la nostra mentalità postcoloniale.

pubblicato sul numero 40 della Falla – dicembre 2018