C’era una volta, in Italia, il Pride nazionale. Cominciammo a metà degli anni Novanta (guai a indicare una data esatta: si finisce dritti nella polemica sulla paternità del primo Pride) e a colpi di Pride nazionali abbiamo scavalcato il nuovo millennio, con l’ostacolo del Giubileo e i riflettori del World Pride di Roma, nel 2000. Ci sono stati Pride nazionali a Roma, a Bologna, a Milano, a Genova, a Venezia, a Bari, a Grosseto, a Palermo, a Torino, a Napoli. In mezzo, nel 2011, perfino un Europride con Lady Gaga. In alcuni anni, per una città ricevere il compito di organizzare il Pride nazionale significava spuntarla in una corsa molto agguerrita, in altri anni il Pride era un impegno ingombrante che volentieri si lasciava ai vicini. Fortune alterne, entusiasmi alterni, debiti alterni. Grandi o piccoli, ma pur sempre debiti. 

Il Pride nazionale si decideva in una grande assemblea nazionale del movimento, spesso convocata nella sede del circolo Mario Mieli a Roma. O almeno, lì ho partecipato io alle assemblee più infuocate. Ma anche le più istruttive: erano una sorta di lunga liturgia, che procedeva prima a piccoli passi, quasi come un rullo di tamburi prolungato, fino all’atteso intervento che realmente apriva le danze. In quegli appuntamenti ho conosciuto persone da cui ho imparato tanto, attivist* limpid* e radical*, uno fra tutti Andrea Berardicurti, indimenticabile La Karl du Pigné. Ma ho anche conosciuto nuove vette di tabagismo e riversato quintali di monetine in quella macchinetta del caffè. 

Dal punto di vista organizzativo, il comitato Pride che ogni anno si insediava nella città investita della manifestazione nazionale, era una sorta di bestia mitologica con molte teste e poche braccia, ma di solito gambe molto forti per correre veloce la volata finale. Un organo in cui si ritrovavano organizzazioni locali e nazionali, piccole  e grandi, LGBTI e non.  A loro il compito, tra gli altri, di scrivere il fatidico documento politico e di stabilire l’ordine di uscita dei portavoce sul palco della manifestazione. Che detta così sembra roba facile, ma se ne usciva stremate, coi crampi alle mani per la scrittura, le relazioni amicali al minimo per i rancori da scaletta e le ore di sonno decimate. A quegli anni risalgono documenti in formato enciclopedico, interessanti e preziosi nel raccontare l’elaborazione politica di quel tempo ma ostici come una full immersion in una letteratura sconosciuta.. 

Dal 2014, poi, una piccola rivoluzione. Da una parte, l’urgenza di certe istanze rendeva necessario un Pride nella Capitale, nella città del Parlamento e del Vaticano. Dall’altra parte, fuori dal raccordo anulare, le città che erano state attraversate dai Pride avevano conosciuto una stagione propulsiva importante, che aveva introdotto in quei territori buone pratiche che si voleva diventassero stabili, come stabile si voleva diventasse il Pride. Insomma, c’era bisogno di Pride tanto a Roma quanto nelle altre città. E c’era bisogno di Pride anche nei centri in cui ancora non si era riusciti a organizzare una parata dell’orgoglio, ma dove i gruppi e le associazioni  si erano dati quell’obiettivo, per replicare nelle loro realtà quella spinta in avanti di cui alcune città avevano beneficiato. Non era solo una questione di rapporto con le istituzioni, anzi in alcuni casi l’urgenza era determinata proprio dalla presenza di una politica ostile, che andava in tutti i modi contrastata. 

Il Pride trasforma innanzitutto le comunità cittadine, inietta empowerment e consapevolezza, accende conversazioni – nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e in quelli del tempo libero. Qualche volta, quasi sempre, scatena anche polemiche e conflitti, interroga e divide. Perché il Pride sfida le città, le mette alla prova, le stuzzica, le provoca, le mette in discussione. Ma poi, alla fine, le fa anche emozionare. Il primo Pride, per ogni città, è il racconto di una folgorazione, di un’energia straordinaria liberata tra la gente. Per ogni città c’è un prima e un dopo il Pride. 

La scommessa, allora,  fu quella di far scomparire l’aggettivo “nazionale” dal Pride, e sostituirlo con l’onda, cioè l’idea di un grande unico Pride che, come un’onda, attraversa il Paese, passando da una città all’altra, da una piazza metropolitana a un vicolo. La proposta partì da Arcigay, che nelle sue numerose articolazioni locali – e tra queste Napoli e Bologna –  testimoniava quella richiesta di un Pride diffuso. Ma anche sostenibile, perché non chiedeva a nessuna città di intestarsi l’onere organizzativo di una manifestazione nazionale, con pullman di attivist* in arrivo da tutta Italia. E – soprattutto – autodeterminato: ogni città avrebbe costruito il proprio Pride, senza dover aderire a un format, trovando le proprie pratiche, le proprie alleanze, la propria idea di Orgoglio.

Si iniziò timidamente già nel 2013, in realtà, con soli cinque Pride: Bologna, Milano, Napoli, Sardegna e Catania. Poi nel 2014 l’idea dell’onda prese corpo in maniera molto più concreta: tredici le parate, a Roma, Napoli, Lecce, Milano, Catania, Bologna, Sardegna, Perugia, Palermo, Torino, Venezia, Siracusa, Reggio Calabria. Poi 15 Pride nel 2015, 24 nel 2017 e ben 52 quest’anno, nel 2023.

Ancora oggi sento voci che rimpiangono il Pride “nazionale” o che addirittura attribuiscono a quell’assenza gli scarsi risultati delle nostre battaglie. Io credo che quel nazionale avesse molto più senso per noi che per gli altri e credo che la contropartita di un Paese mobilitato con oltre cinquanta pride da aprile a settembre sia di valore inestimabile. 

Alla fine, ma non per importanza: il Pride diffuso ha permesso la presa di parola di chi problematizza il Pride mainstream, quello dei sindaci e dei brand, uscendo dalle logiche maggioritarie delle assemblee e portando alla riappropriazione collettiva – comunitaria – dei Pride. Oggi i Pride sono tanti e molto diversi tra loro: nei giorni in cui si discute del patrocinio delle Regioni ai Pride di Roma e di Milano, ci sono altri Pride, come Bologna, che quella richiesta di patrocinio non l’hanno mai fatta. Perché il Pride a Bologna resta essenzialmente una protesta. E lo è anche altrove, perfino all’interno di cortei festanti delle manifestazioni più mainstream. E lo è nei primi Pride queer che stanno nascendo nelle nostre città, fuori dall’Onda, e che sono il più importante segnale di salute della nostra comunità.

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