L’UTILIZZO STRUMENTALE DELLE MENSE SCOLASTICHE E DELLE TRADIZIONI CULINARIE

di Giuseppe Seminario

C’è chi ricorderà il 2018 come l’anno del fallimento calcistico del Bel paese o come quello dell’ascesa al potere di due mestieranti della politica da social. Più probabilmente, per chi a mezzodì si ritrova a dover spignattare davanti ai fornelli, i 365 giorni appena trascorsi rimarranno impressi come quelli in cui la tavola imbandita è stata al centro del dibattito politico. Se il passaggio di consegne alla Prova del cuoco tra Antonella Clerici e Elisa Isoardi è stato letto da alcuni semplicemente come una raccomandazione in favore di colei che è stata compagna, fino a qualche mese fa, di uno dei due leader politici di cui sopra, i provvedimenti presi da alcune amministrazioni hanno tenuto banco fino agli ultimi scampoli di dicembre.

Le cronache degli ultimi mesi, infatti, ci raccontano l’ora di pranzo, sui social e tra i banchi di scuola, come l’ultima frontiera della discriminazione. All’indomani della riapertura delle scuole è rimbalzata sui media la notizia che la giunta del Comune di Lodi ha approvato un regolamento che ha reso difficile, se non addirittura impossibile, l’accesso agevolato alla mensa scolastica a chi proviene da famiglie non comunitarie. Spacciata come misura volta a garantire equità e a smascherare i furbetti, la disposizione promossa dalla maggioranza guidata dalla leghista Sara Casanova imponeva la presentazione di documenti che dimostrassero la presenza, o meno, di redditi o proprietà immobiliari nei paesi di provenienza, pena il pagamento delle tariffe piene. Materiali di difficile reperibilità, per chi proviene da nazioni in cui è assente il catasto o uffici analoghi, la cui mancanza ha portato quasi 300, tra bambini e bambine, all’esclusione durante il momento del pasto da ottobre in poi. Le norme igieniche vigenti, infatti, impongono che le pietanze provenienti dall’esterno, nel caso di quelle famiglie che non abbiano optato per riportare i figli e le figlie a pranzo a casa, debbano essere consumate in spazi diversi da quelli della mensa.

Una combinazione esplosiva – per fortuna disinnescata da una sentenza del Tribunale di Milano – che ha reso per qualche settimana le aule dell’Italia quanto più simili ai bus degli Stati Uniti segregazionisti degli anni ‘50 e il cibo, da millenni elemento di socializzazione e accoglienza, di contaminazione di sapori e saperi, l’ennesimo campo di battaglia di razzisti e neo-fascisti. Un Risiko giocato a colpi di bucatini all’amatriciana, pomodoro e mozzarella, per marcare una differenza tra ciò che è italiano e ciò che non lo è. A dimostrarlo ulteriormente la dichiarazione dell’On. Giorgia Meloni che, a poche ore dal caso lodigiano, si è scagliata contro l’introduzione del cous-cous, “alimento tipico nordafricano”, nel menu della mensa di Peschiera Borromeo, come alternativa alla carne di maiale una volta ogni venti giorni, dichiarando su Twitter che “ora sono i figli degli italiani a doversi adeguare alle esigenze alimentari di chi dovrebbe integrarsi”. Un tweet – immediatamente contestato dall’amministrazione e dall’Asl locale e ridicolizzato da decine di utenti sui social – che fa il paio con le foto con cui Matteo Salvini comunica quotidianamente agli elettori-follower i suoi pasti, rigorosamente a base di eccellenze tutelate da presidi, marchi, etichette che ne garantiscono l’italica integrità. Come se ciò di cui ci alimentiamo fosse sempre stato prodotto allo stesso modo, con ingredienti locali coltivati amabilmente da contadini e contadine, razze autoctone allevate da fattori e fattrici dai volti gioviali, secondo una pervasiva retorica sovranista che rimuove – per ignoranza o malafede non ci è dato saperlo – che il cous-cous sia un piatto consumato da secoli anche in Sicilia e Sardegna. O che il pomodoro, gli spaghetti, la polenta e i fagioli – perfino i meloni – in Italia siano giunti grazie a migrazioni, scambi commerciali, contatti con altre culture e che, nonostante ciò o forse appunto per questo, siano diventati vanto italiano nel mondo. Perché se i confini possono essere chiusi a suon di decreti, con le cucine l’impresa si fa più ardua. E in caso di successo si rischia di perdere anche il cognome, cara Giorgia.

pubblicato sul numero 41 della Falla, gennaio 2019