La prima volta che vidi Berlino fu subito dopo la caduta del muro. Solo qualche anno prima, in piena adolescenza, ero stato folgorato da quella povera crista di Milva che misericordiosamente era riuscita a farmi guarire da una spiccata esterofilia musicale. Alexander Platz era quindi una tappa obbligata: oggi è un flipper pieno di luci che ricorda Piccadilly Circus, ma all’epoca conservava quell’austerità sovietica di cui a Bologna si può forse ancora trovare traccia nell’attuale Piazza VIII Agosto.
Era febbraio, non c’era la neve e, anche se il muro era stato smantellato, quel vasto spazio ispirava la stessa malinconia dell’omonima canzone. Certo, era dura convenire che a Berlino d’inverno si vivesse “bene come di primavera”: abitavo in un caseggiato della zona Est e vi garantisco che, una volta deciso di spegnere la stufa a carbone per paura di morire gasati nottetempo, l’ultima cosa che avete voglia di fare, finite le pulizie, è sedervene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film. Bisogna muoversi per non rischiare l’assideramento, e dev’essere per questo che Milva esce a fare quattro passi fino alla frontiera.
È in simili meccanismi di identificazione che risiede l’essenza di un’icona: mi chiedo per quante generazioni di gay a venire sarà impossibile fare una sgambata per Alexander Platz senza sentirsi Milva. Di sicuro lo era per me un quarto di secolo fa, quando non conoscevo il segreto di questa canzone ed ero convinto che nascesse come un geniale pastiche sulla Berlino Est della Guerra Fredda. Non avevo mai prestato attenzione al fatto che fosse firmata, oltre che da Franco Battiato e Giusto Pio, anche da Alfredo Cohen. A dirla tutta non avevo proprio idea di chi fosse Alfredo Cohen, il che getta una luce sinistra sull’attenzione riservata alla memoria di temi fondamentali come la storia della lotta per i diritti LGBT+.
Cohen è il classico mistero avvolto in un enigma: inizialmente l’attivismo nel Fuori!, una carriera teatrale incentrata sul tema dell’omosessualità, e Come barchette dentro a un tram, primo concept album italiano in cui l’omosessualità è presentata con orgoglio, ironia, e senza l’usuale corredo di pietismi (in tempi in cui il pregiudizio era un muro che pareva incrollabile come quello di Berlino), poi la decisione di allontanarsi da tutto ciò per eclissarsi a Tunisi, dove scompare. In mezzo a questi estremi, nell’ardente Bologna di fine anni ‘70, conosce Valérie Taccarelli, tra le fondatrici del Collettivo Frocialista Bolognese, nucleo originario del Cassero LGBT Center. È a lei che dedica i versi di Valery, su musiche di Battiato e Pio.
Tra alberi bianchi di Natale, piazze colme di arance, grappoli d’uva e occhiali alla Minnelli, nella poesia di questo testo fa capolino anche una bidella che insegna una lezione antica (“spolverare, fare i letti, poi starmene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film”). Pochi anni dopo, la canzone – arricchita di un ritornello assassino e conservando del testo iniziale poco più che la bidella, Marlene e le borse sotto gli occhi (che smettono anche di essere gli “occhi tuoi di Liz Taylor” in cui Cohen aveva trasfigurato quelli di Valérie) – diventerà Alexander Platz: senza affrancare Milva dalla condanna di sentirsi chiedere La Filanda a ogni concerto nonostante anni di Brecht, darà comunque nuovo respiro alla sua carriera.
Il salto dalla transessualità e dall’elegia dell’adolescenza alla desolazione della Berlino d’oltrecortina è notevole e, perché si compisse, Cohen chiese cavallerescamente il consenso della sua musa. Con una magnanimità d’altri tempi, Valérie glielo concesse e il fatto che Milva fosse già da parecchio un’icona non rende meno ammirevole il gesto. Nel passaggio di consegne qualcosa si è perduto, come un po’ si è perduta la consapevolezza di un’epoca battagliera: forse è per questo che oggi è più facile passeggiare per la nuova Alexander Platz sentendosi Milva piuttosto che per Piazza di Porta Saragozza sentendosi Valérie.
pubblicato sul numero 21 della Falla – gennaio 2017
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