Prospettive politiche del lesbismo italiano
di Paola Guazzo
Ho alcune idee sul futuro del movimento lesbico in Italia, ma mi sono domandata come sintetizzarle in qualcosa che le comunichi in un modo nuovo e chiaro. Alla fine ho partorito: il futuro è imparare a giocare.
Finora il gioco dell’ex associazione nazionale di riferimento, Arcilesbica, è stato Fight C club. In essa, come metafora narrativa vicina però alla realtà, si imparava a essere menate e qualche volta a menare. Non sono fra le ipocrite che pensano che il conflitto, anche qualora sia giocato disonestamente, sia un demone da accantonare a favore di un buonismo femminile di maniera, che ci vuole naturalmente portate a una politica di relazione e riconciliazione. Tuttavia, se il Fight club ha regole viziate per favorire solo nerd pseudo-tutto o anzianotte miopi, non può aiutare un irrobustimento mediante il conflitto o favorire la nascita di un legame profondo fra i membri, come nel film omonimo.
Altri errori rispetto allo script corretto sono due, uno psichico e l’altro politico. Il primo risiede nel capire che l’amica-nemica è uno specchio rovesciato di te stessa; a questo dovrebbe seguire – come nel film o dopo un’analisi ben riuscita – l’apertura a un affetto comunitario che sappia essere “scudo e gladio” del club (cambiando in senso un minimo più democratico il motto della Stasi durante la Ddr).
Il secondo è che, partendo dal rinnovamento psichico dato dal gioco corretto, il Fight Club dovrebbe sbocciare in un nuovo senso incisivo, inclusivo e forse anche rivoluzionario.
Il Fight Club manchevole di Arcilesbica è fallito. Non sarà una perdita per chi si è allontanata in questi anni (tutte le fighters più abili e/o sensibili, questa è la realtà non edulcorabile:
non c’è aspartame Terf che tenga). Non ci sarà un lutto, e questo sarà più triste del lutto stesso. Non canteremo Les feuilles mortes, ma forse ci ricorderemo come siamo cresciute come soggetti politici in un progetto di attività e visibilità collettiva che ci ha attraversato, costruendo comunque le relazioni del presente, al di fuori di quell’associazione.
Reset. Quale gioco? Il nome è ancora ignoto. Potrebbe esserci ancora un impensabile. Gli lascerei spazio, ma il tempo stringe, siamo entrate in un periodo di destrificazione che ha lo scopo di annullarci in quanto soggetti, ed è bene non farci illusioni o pensare di poter trattare ancora al ribasso con il nemico patriarcale. Per prima cosa bisognerebbe avere la forza di dare più spazio al desiderio, che non vuol dire accontentarsi delle unioni civili, ma lavorare su contenuti individuali e sociali di spessore. Tutto questo dovrebbe avvenire all’interno di nuove relazioni non finalizzate a piccoli itinerari narcisistici di leaderine mosse dal Fuoco Sacro di quel che il femminile dovrebbe rappresentare come Essenza e che finiscono a rigirarsi fra le mani i soliti strap-on, scrivendo magari sul blog di un giornale mainstream. Creare rapporti virtuali e reali più forti, coinvolgendo anche le giovani in una rete che non sia solo Wapa. Creare un dialogo inter, in tutti i sensi, fare in modo che l’inter-razziale non sia solo una categoria del porno.
Giocare è imparare ad alleggerire il peso, lo si può fare con una buona squadra, e nel contempo avere obiettivi di vittoria. La nazionale di calcio femminile ci insegna la gioia del gol nato dalla messa in campo collettiva di talenti individuali ben amalgamati, e anche gli spogliatoi sono interessanti. Bisogna imparare a reggere la pressione di un gioco nuovo, sia sui social che nel reale, che servirà anche a stemperare eventuali momenti di lesbian drama senza distruggere la nostra politica: solo dove c’è collettità c’è casa, per usare una metafora cara a Rossana Praitano.
Infine, chiunque saranno le allenatrici, dovrebbero ricordare a se stesse che – al di là degli schemi realizzati – è importante avere una squadra in grado di immaginare il gioco.
“Immagina. Puoi” è forse una delle poche cose sensate da dire alle proprie ragazze, giovani o meno che siano.
pubblicato sul numero 34 della Falla – aprile 2018
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