di Roberto Pisano

Nel 1995 ben 189 paesi si riunirono a Pechino per la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne. Al termine dei lavori tutti i partecipanti sottoscrissero una dichiarazione impegnandosi a “promuovere l’indipendenza economica delle donne per mezzo di cambiamenti nelle strutture economiche” e a “ristrutturare e ridefinire la spesa pubblica per promuovere le opportunità economiche delle donne e il loro accesso alle risorse”. Quasi un quarto di secolo dopo l’obiettivo non si può dire centrato, nemmeno alle nostre latitudini, anche se un vocabolario condiviso a livello internazionale si fa largo, seppur ignoto ai più. La Commissione Europea ha adottato nel 1999 il gender budgeting come strumento per sviluppare e riorganizzare le misure politiche, col fine di innestare una prospettiva di uguaglianza di genere in tutti i livelli decisionali.

Costruire un Bilancio di genere significa ripensare il processo di scelta e fornire nuovi mezzi per valutare gli impegni economico-finanziari di un’organizzazione. Ciascun provvedimento, politico o manageriale, non è mai neutrale rispetto al genere, ha ricadute diverse sugli individui in natura dei loro bisogni e della loro condizione socio-economica. Se, ad esempio, le donne si fanno carico della gran parte del lavoro casalingo, la conciliazione della vita familiare con l’attività lavorativa sarà fortemente influenzata da variazioni della spesa pubblica in materia di cura e istruzione. Trascurare questa dimensione quantitativa implica allora un’allocazione potenzialmente distorta non solo delle risorse materiali e finanziarie, ma anche di quelle immateriali, come il tempo, e può portare ad accentuare il gender gap già esistente nella società.

A scanso di equivoci, non stiamo parlando di un bilancio – pubblico o aziendale – distinto per genere, né solamente di programmi mirati ad alcune categorie. Si tratta piuttosto di riclassificare la struttura di entrate e uscite per considerare le necessità dell’intera collettività: evidenziando l’impatto di ciascuna di esse su donne e uomini, facendo emergere le differenze esistenti e cercando di ripartire le risorse in modo più equo e trasparente.

Solo in seguito si promuovono piani di azioni positivi, viene riorganizzato il lavoro, si regola il reclutamento e la gestione del personale, nasce un comitato Pari Opportunità e si avviano percorsi di formazione interna per sensibilizzare tutti i componenti. È anche creando una coscienza diffusa, infatti, che si combattono fenomeni come il soffitto di cristallo (difficoltà ad accedere a ruoli apicali per le donne) o gli enormi squilibri di genere in certe posizioni e si implementano misure di flessibilità.

In Europa esistono diverse realtà in cui la prospettiva di genere è parte integrante di tutti i bilanci, anche pubblici: Svizzera, Belgio, Repubblica Ceca, Austria (vi è addirittura un riferimento nella Costituzione), Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia (a partire dagli anni ‘80). Se non siamo l’Australia, dove è prassi dal 1984, c’è da dire che in Italia dal 2000 vi sono state diverse esperienze locali felici (capofila Modena), anche se per il momento si tratta perlopiù di dati di consuntivo, diffusi a fine informativo, non di un ragionamento in fase di preparazione del bilancio. È ancora un tabù per i decision makers, anche se la riforma del Bilancio dello Stato del 2016 ha finalmente introdotto questo obbligo a livello nazionale.

Al momento nel nostro Paese va forte l’analisi della gestione delle risorse (gender auditing), mentre la valutazione preventiva di entrate e uscite (gender budgeting) resta una pagina bianca: un passo in avanti sulla trasparenza, senza esiti chiari sull’equità e l’efficienza. Le due fasi dovrebbero essere strettamente connesse: valutare quel che si è fatto per ridefinire le scelte future.

Sembra che perfino uno strumento apparentemente oggettivo come il bilancio sia piegato – ennesimo caso – alle esigenze di pinkwashing di aziende e amministrazioni. Aspettiamo il giorno in cui impareremo a fare i conti con i bisogni di tutte e tutti.

pubblicato sul numero 32 della Falla – febbraio 2018