La situazione delle atlete trans a sei mesi dalle olimpiadi di Tokyo

di Leonardo Arpino

Il 14 ottobre del 2019 l’allora Iaaf (International association of athletics federations), poi rinominata Wa (World Athletics), ha emesso un regolamento per disciplinare l’inclusione delle persone trans nelle competizioni internazionali di atletica leggera. Alle donne trans, in particolare, è richiesto di provare che il loro livello di testosterone sia rimasto inferiore alle 5 nmol/L per almeno 12 mesi.

Quando nel 2012 era stata pubblicata la versione precedente di questo regolamento (sostanzialmente identica, salvo per il valore soglia che era fissato a 10 anziché 5 nmol/L), si trattò di un fatto epocale. Per la prima volta si dichiarava esplicitamente che le donne trans non dovevano sottoporsi a interventi chirurgici o a cambio legale dei documenti (che in alcuni paesi non è possibile): dovevano semplicemente soddisfare gli stessi requisiti di tutte le altre donne.

Sì, perché l’ammissibilità a gareggiare negli sport femminili non discende automaticamente dall’essere state registrate donne all’anagrafe. Sulla scia del caso Semenya, l’atleta sudafricana con alta produzione naturale di testosterone che, appena diciottenne, ai Mondiali di Berlino del 2009 rifilò oltre due secondi di distacco alle avversarie sugli 800m sollevando il proverbiale polverone, la Iaaf e il Comitato olimpico internazionale si erano messi al lavoro per superare gli invasivi (e ormai anacronistici) protocolli di accertamento del sesso. La loro conclusione fu che il fattore discriminante fra donne e non-donne fosse il solo testosterone. La decisione incassò plausi importanti, fra cui quello di Judith Butler, in un post apparso sul blog della London Book Review.

Secondo Butler, con i nuovi metodi sarebbe stato possibile che una donna, tale per cultura e identità, non risultasse ascrivibile alla categoria femminile, senza che questo mettesse tuttavia in dubbio il suo essere donna. Specularmente, anche un uomo avrebbe potuto non soddisfare i criteri per gli sport maschili, ma essere ammesso a quelli femminili. C’era come una sorta di attesa, logica, che anche la categoria maschile venisse in qualche modo regolamentata.

Naturalmente le cose non sono andate così: per gli uomini non ci sono criteri di ammissibilità, e fu lo stesso Cas, la corte di arbitrato sportivo presso cui Semenya presentò un ricorso nel 2015, che, pur dando ragione alla federazione, definì il regolamento «discriminatorio, perché applicato solo alla categoria femminile e solo ad alcune donne in quella categoria».

La regola del limite di testosterone, per quanto sia d’aiuto per quelle donne trans che avrebbero in ogni caso intrapreso una terapia di soppressione degli ormoni androgeni, esclude totalmente quelle che non desiderano farlo. Inoltre, è fondata su uno studio ritenuto non irreprensibile da molti esperti. Di fatto il Comitato olimpico internazionale, che avrebbe dovuto pubblicare in autunno un aggiornamento sulla questione, proprio come ha fatto la Iaaf, non si è ancora espresso – a meno di sei mesi dalle olimpiadi di Tokyo – a causa del furente dibattito attorno alla legittimità di questa soglia. 

Altro tasto dolente è il target dei controlli, che non si fanno a tutte le atlete indiscriminatamente, ma solo a quelle che suscitano sospetto: a causa delle loro prestazioni, o anche solo del loro fisico. E così, come ha osservato la bioeticista Silvia Camporesi, da quando il regolamento è entrato in vigore, nel mirino degli esaminatori sono finite solo donne non bianche, provenienti dal Sud del mondo. D’altra parte, la stessa Semenya fu definita semplicemente «un uomo» dalle sue avversarie.

Insomma, con il proposito di salvaguardare l’equità delle competizioni femminili in realtà si riafferma, senza lasciare più spazi di ribellione, che le donne devono essere per definizione più deboli degli uomini, graziose e possibilmente anche bianche. Ed è questo che dovrebbe preoccuparci tutte e tutti, più del presunto vantaggio sleale che una donna trans potrebbe avere sulle avversarie.

Pubblicato sul numero 53 della Falla, marzo 2020

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