La prima edizione di Questo è il corpo. Rituale dei giorni nuovi (effequ, 2022) mostra in copertina le stigmate e il bracciale femmineo di rovi di una figura Christi queer su un braccio che delinea il movimento di un parrocchetto verde, verso scenari tropicali. Il corpo è quello di Veronica, una ragazza trans* che viene ritrovata in paese in stato catatonico. Delle contrapposizioni che tendono e sostengono il suo primo romanzo, parliamo con l’autorə: Simone Marcelli Pitzalis.
La trama del libro si svela attraverso la prospettiva di una voce narrante che, nel parlare di sé, alterna il maschile e il femminile; è un personaggio interno alla narrazione, però non sembra poter interagire mai direttamente con le altre persone o l’ambiente. Vi leggo un meccanismo di rappresentazione dell’esperienza non binaria ma anche un espediente narrativo preciso: è così?
Parto da un’esperienza di invisibilizzazione, che è sociale, culturale, fisica, ma anche cognitiva: pensiamo e concettualizziamo attraverso la lingua; se questa lingua non offre gli strumenti per dirsi e quindi – ancor prima – per pensarsi, è evidente che rimane un vuoto per una persona non binaria, o in generale per una soggettività altra rispetto a quelle ipotizzate dalla lingua di consumo. Ma nel margine nel quale è ricacciata c’è anche un grande spazio di libertà, perché vengono meno le costrizioni della lingua borghese e ciseteropatriarcale. La voce diventa allora imprendibile, si rarefà al punto da non essere più corpo e può avere la sua rivalsa in maniera quasi tirannica. E sì, può essere straniante per il pubblico orientarsi in questo alternarsi di desinenze, com’è ostico però per noi vivere e sopravvivere all’interno di un sistema che non ci riconosce. Ciascunə di noi, per tutta la vita, fa lo sforzo di comprendersi all’interno di una lingua che in qualche modo ci è straniera e straniante: in questo spazio letterario allora le carte vengono ribaltate e quindi sta a chi legge fare lo sforzo cognitivo di trovare un senso all’interno di un italiano che non rispetta la nostra corrispondenza dei generi. In una masterclass, a Kae Tempest è stato chiesto come avrebbe fatto se fosse stata una persona italiana. Ha risposto che con ogni probabilità sarebbe saltatə dal maschile al femminile: c’è una strategia dietro la manomissione della lingua, come un dispositivo quasi tumorale che la divora dall’interno e ne fa crollare i presupposti culturali.
La voce narrante, che è priva di corporeità, è quindi anche il primo tra tanti degli sguardi sul corpo di Veronica, che diventa il perno attorno cui si costruisce tutta la narrazione. Anche questa è una contrapposizione fondante?
A qualunque soggettività divergente viene posta una scelta psicotica tra il non avere un corpo e l’essere solo corpo: per lo sguardo pubblico se non scompariamo siamo inchiodatə a una coincidenza perfetta tra identità e corpo, ed è una forma di oggettificazione evidente. È quello che succede a Veronica: il prezzo dell’accettazione è innanzitutto la medicalizzazione, che è tra le diverse forme di presa di possesso del sistema per cui il corpo della persona divergente può anche arrivare a essere ammirato; ma per essere riconosciuto deve essere in qualche modo disumanizzato ed espropriato dalla soggettività che lo possiede. È stato difficile scrivere del rapporto tra Veronica e la voce narrante, la quale per le sue scelte individuali non vuole attraversare la transizione medica. Prova una forma di invidia e di astio nei confronti di Veronica, talvolta anche sminuendo il suo dolore, perché nella sua inconsistenza non riesce ad avere presa sul mondo, e soprattutto entra in gioco l’asse di discriminazione che riguarda la provenienza: Veronica è nata in paese, la voce narrante viene dall’esterno. Ho voluto provare a lavorare su questo doppio piano di costruzione, perché l’identità non è mai un filo lineare: le dimensioni della classe, della razza, dell’etnia, della cultura, della religione, del genere, della sessualità formano un fascio ingarbugliato di esperienze attorno a noi. Veronica è più palesemente divergente e mostruosa rispetto alla norma, ma la comunità del paese non vuole rigettare lei, ma ciò che non riconosce in lei e quindi per farlo utilizza questa presa contraddittoria che la trattiene perché non può perdere un pezzo di sé ma allo stesso tempo la massacra in quello che non può accettare.
Questa transizione costante investe anche la spazialità del romanzo, dove da un lato c’è la voracità consumistica del Circuito turistico, dall’altro il nomadismo delle Matrone, queste leader femminili di gente reietta che sembrano seguire una loro teleologia mistica.
Per me il significato ultimo della locuzione «siamo tuttə in transizione» è che non c’è alcuna stasi nei processi identitari, perché quando questi si fermano si smette di essere identità in cammino e si diventa da processo a prodotto. Questo fenomeno è più evidente nei processi legati alle località e allo sfruttamento del territorio: come in un esperimento ridotto in laboratorio, ho tentato di mostrare cosa succede a un’identità locale che vuole riconoscersi come un’identità fissa e stabile e che quindi non può fare altro che anteporre un’immagine di sé a sé. È esattamente quella dinamica di creazione del prodotto e di alienazione che dà spazio al turismo più vandalico. Le Matrone con la loro comunità sono salve da questa oggettificazione in quanto sacerdotesse e custodi della legge prima e ultima del mondo che è il continuo mutamento delle cose. Per cercare di rendere queste tensioni in atto ho utilizzato le descrizioni paesaggistiche e il concetto di tempo profondo: la nostra storia considerata immutabile è in realtà un attimo nella prospettiva delle ere geologiche, e quindi questo ridimensiona la pretesa di autorità della nostra storia e riafferma invece il potere del processo. I capannoni industriali che riteniamo testimoni della gloria delle nostre imprese commerciali non saranno altro invece che strati di cemento in mezzo alle rocce, e diventeranno nidi per nuovi animali e sostegni per nuova vegetazione.
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