JEAN O’LEARY: DA SUORA AD ATTIVISTA LGBT+

Il video è in bianco e nero: siamo nel 1973. Sono passati quattro anni dai moti di Stonewall e Richard Nixon resterà in carica ancora per un anno. Sul palco della LGBT Pride March, a New York, si vede salire un’appena venticinquenne Jean O’Leary, allora presidente del Lesbian Feminist Liberation. Di lì a poco leggerà lo statuto della propria organizzazione, i cui punti fondamentali si possono riassumere in: “Sosteniamo il diritto di ogni persona a vestire nel modo in cui lui o lei desidera. Ma siamo contrari allo sfruttamento delle donne da parte degli uomini per il proprio intrattenimento o profitto”. Urla di consenso e applausi concludono il suo discorso. C’è un prima e un dopo questo video. In pochi sapevano chi fosse e da dove venisse quella ragazzina, figlia della seconda ondata femminista, con i capelli corti e l’atteggiamento da maschiaccio.

Jean Marie O’Leary nacque a Kingston, NY, nel 1948. Cresciuta in una famiglia di cattolici praticanti venne iscritta dal padre in un istituto religioso, per tenere fede a un voto nel caso in cui la madre fosse guarita da una grave malattia. Capricciosa e ribelle, mal si adattava, però, ai canoni della scuola. Poi l’amore per sorella Mary Thomas che “la ispirò verso la fede”. Come racconta nell’antologia di N. Manahan e R. Curb, Dentro il convento: 50 monache confessano la loro sessualità (Lesbian nuns: Breaking Silence), Jean sentiva la necessità di dedicarsi a una causa preziosa e “nell’Ohio del ’66, non esisteva né il movimento pacifista, né il femminismo, né le parate gay”. Al termine del liceo, decise così di intraprendere la via del noviziato ed entrò in convento. Leggendo il suo racconto Dio era solo un innocente spettatore si può notare come i cinque anni passati ne La Villa per la sua formazione religiosa furono polarizzati da due momenti opposti: l’amore per le donne e il rifiuto della propria identità sessuale.

Se, da un lato, le vorticose passioni verso le consorelle la portarono a rivedere le sue concezioni – tanto da affermare che amando sorella Carrie le sembrava di celebrare l’intera comunità – dall’altro gli scontri/incontri amorosi con le direttrici del convento la portarono più volte a negare la propria omosessualità. Al termine del noviziato, le donne che Jean aveva amato e con le quali aveva esplorato la sua sessualità l’avevano abbandonata, così nel 1971 dopo essersi laureata in psicologia alla Cleveland University, abbandonò il convento, il nome Marie che tanto le ricordava le battaglie con sé stessa, e cominciò la sua carriera di attivista entrando nel Gay Activists’ Alliance (GAA).

Nei suoi trentacinque anni di lotte queer Jean O’Leary ha portato avanti molte iniziative per far conoscere la comunità LGBT+ riuscendo ad abbattere certi glass ceiling della società americana, che se per un donna eterosessuale erano difficili da oltrepassare, per una lesbica sembravano impossibili. La co-direzione del GAA nel ’74, il coordinamento del Lobby di Washington per i diritti degli omosessuali, fino a essere la prima donna dichiaratamente omosessuale a lavorare in una commissione presidenziale. Sotto il governo Carter, insieme a Midge Costanza, organizzò nel ’76 il primo meeting di omosessuali. Sempre nello stesso anno divenne direttrice esecutiva del National Gay Rights Advocates, un ufficio legale che si occupava di casi di discriminazione contro i lavoratori gay. Ultima, ma non per importanza, la fondazione, insieme a Robert Eichberg, del gruppo promotore del National Coming Out Day nel 1987.

In un’intervista rilasciata al New York Times poco prima di morire, alla domanda circa la necessità di fare o meno coming out, Jean O’Leary rispose dicendo: “Le mie esperienze personali mi hanno insegnato l’importanza di uscire allo scoperto. Ho negato per molto tempo la mia omosessualità e per questo credo che fare coming out sia estremamente importante per la nostra comunità e il nostro movimento. La nostra invisibilità è l’essenza della nostra oppressione. Finché non elimineremo quell’invisibilità, gli altri continueranno ad alimentare i miti e le bugie sugli omosessuali”.

pubblicato sul numero 24 della Falla, aprile 2017