UNA STORIA DA RICOMPORRE CON COSTANZA

Scrivere sulla Shoà. Mio padre c’è mancato poco mi prendesse per il bavero per minacciarmi, fellona, ignorante, ingenua, ridicola, che mi permettevo di avvicinarmi a questa enormità non districabile. Ma io, ormai, avevo avuto l’idea e l’ostinazione poté più dell’avvertimento. 

Ma come cercare la verità? La verità è la tensione verso la verità. È la somma di molte informazioni, la lettura dei libri, vedere i film, quindi le rappresentazioni, vedere i luoghi, riflettere, parlare coi testimoni, coi vicini di casa dei deportati, capire l’evoluzione del trauma, del politrauma, ormai inferto e impossibile da metabolizzare, di chi è stato un bambino cacciato dalle scuole o inseguito nei boschi o deportato con genitori subito uccisi all’arrivo, o semplicemente arrestato per nessun motivo e rimasto per anni in un campo di sterminio. 

Tu non sai qualcosa della Shoà

se non sai come sono saliti al potere i dittatori, 

se non ti sei addentrata nella propaganda e nei filmati di Leni Riefenstahl, tu non capirai tutto tutto (sempre che capire tutto tutto sia un obiettivo raggiungibile), 

se non guarderai attentamente la grandezza reclamistica del nazismo e del fascismo, 

se non conterai i morti civili del conflitto, 

se non ti interesserai della politica di Churchill, 

se se se, 

se non ti metti lì a capire quali sono le tortuose carsiche vie del trauma terribile; 

se non terrai conto dell’impossibilità di soccorrere psichicamente i sopravvissuti appena tornati, che non furono soccorsi in tal senso, che l’Italia era da ricostruire, che c’era tanto da fare, che avevano sofferto tutti, la fame la guerra i lutti gli arresti il crollo della casa;

se non ti occuperai di ogni singola storia collegandola a dati collettivi;

se non vedrai il museo di Auschwitz coi mucchi di occhiali e di protesi e di scarpe e di valigie; 

e quant’è grande Auschwitz e com’è organizzato e che erba verdissima c’è, insopportabile il pensiero;

se non integrerai una grande quantità di dati, tu non capirai l’atteggiamento delle persone deportate, che in gran parte ubbidirono credendo alle autorità competenti, non capirai la latenza di narrazione della maggior parte dei sopravvissuti, non capirai l’ambivalenza e il senso di colpa inconfessabile, ma onnipresente, per essere sopravvissuti alla sorella, al fratello, a persone che ti hanno salvato la vita anche solo spostandoti dalla lista delle camere a gas a quella del trasporto patate, o dandoti la propria razione di cibo fino alla selezione, o dandoti una rotella di carota per aiutarti a guarire da un’infezione sotto l’ascella. 

Tu, per parlare di Shoà, devi essere onesta e ammettere che non ne sai, tu, di Shoà.

Dal 2000, con l’affermarsi del giorno della memoria ufficializzato e standardizzato, ci si è appiattiti sulle singole testimonianze, l’editoria è sempre a caccia di nuovi manoscritti olografi, ogni anno si cerca di avere qualcosa di inerente da far uscire a gennaio. 

Sono fiorite una quantità di iniziative, saggi scolastici, film esperimento con figli di nazisti che chiedono scusa a nipoti di sopravvissuti, violini salvati dalla distruzione che suonano a Santa Cecilia, cartoni animati, giochi di realtà virtuale che ti deportano in campo di sterminio. 

Il bene e il male fioriscono attorno a questo vulcano semispento, ma potente, che è Auschwitz, e distinguerli è diventato arduo e pericoloso. 

D’altra parte, se non ci fosse stata questo livello di interesse sull’evento storico, non sarebbe così facile parlare di complessità, discettare su ciò in ogni direzione. Perfino io, che non sono nessuno, ho fatto approfondimenti sui meccanismi di persecuzione di omosessuali e donne, tutte le donne, anche le naziste. E questo è stato possibile solo perché c’è interesse attorno, c’è l’occhio di bue, una volta l’anno, puntato su questo argomento. 

Sì, è un vulcano e può eruttare. Nel frattempo, la terra calda dà i suoi frutti e siamo noi qui sotto a coltivarli.

Pubblicato sul numero 61 della Falla, gennaio 2021