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Correva l’anno 2012, quello in cui avevo rimesso piede al Cassero, dopo una relazione complicata e totalizzante che mi aveva allontanato dal circolo, portandomi, però, a rendermi più visibile. Dalle mie sorelle, con le quali condividevo – per poche ore al giorno in realtà – gli spazi di casa, alle amiche e agli amici che avevo incontrato tra gli anni del liceo e dell’università, tutte le persone più importanti della mia esistenza conoscevano il mio orientamento sessuale. 

Tranne mio padre e mia madre. 

Era anche l’anno dell’ultimo Pride nazionale organizzato a Bologna, grazie al quale avevo iniziato la mia storia d’amore – l’unica ancora non conclusa – con il volontariato. Quell’estate presi finalmente consapevolezza che sarebbe stato poco coerente essere attivista al nord e velata al sud. Decisi, quindi, di confessare l’indicibile per una famiglia calabrese, ovviamente ai miei occhi di ventenne emigrato verso l’El Dorado felsineo. Aspettai il momento propizio sul finire della bella stagione, perché tanto, pensavo, i fondi per sopravvivere non me li toglieranno mai e il tempo per chiarire si troverà. 

Appena saputo che pasta e ceci sarebbe stato il piatto principale a pranzo, capii che era giunto il giorno: il peperoncino e la temperatura ustionante avrebbero giustificato i sudori e le eventuali lacrime, ormai motivi ricorrenti dei miei coming out. Iniziammo a mangiare. Più trascorrevano i minuti, più il mio battito accelerava, le mani diventavano bagnate e la mia faccia rossa. Fino a quando non dissi la fatidica frase che preannuncia le peggiori notizie del mondo: «Vi devo dire una cosa…». Sul divano, una delle mie sorelle mi guardava, già piangendo emozionata. Calò il silenzio. Il climax era ormai perfetto, nonostante l’ennesima replica di Don Matteo a fare da tappeto sonoro. Dopo alcuni secondi interminabili, anche a ripensarci oggi, dissi di essere omosessuale.

È probabile che avessi visto troppe serie televisive e film in cui il coming out con i propri genitori assumeva i connotati di una tragedia, tra strepiti, cure psichiatriche da attivare all’indomani e catarsi collettive condite da tante lacrime. Così non fu. Mio padre si alzò, si avvicinò al frigo e alla mia domanda «Che fai?», con una naturalezza spiazzante, rispose «Prendo la frutta». Tornato a tavola lo incalzai, cercando la reazione che mi aspettavo. Invece, mentre Terence Hill sorrideva giulivo inforcando la sua bicicletta, continuò dicendo che per lui non sarebbe cambiato nulla. La persona che più mi intimoriva, mi lasciò di stucco. Mia madre mi diede qualche soddisfazione, o almeno si fece venire gli occhi lucidi, laddove ammetteva di averlo sempre sospettato, colpevolizzandosi per il mancato supporto. 

Purtroppo per loro, scoprirono ben presto cosa significasse avere un figlio attivista. Li catapultai a forza in un mondo fatto di politica e diritti, abitato da espressioni strane come identità di genere e orientamento sessuale. Li portai a conoscere i miei sentimenti e le mie sensazioni. Li portai, finalmente, a conoscermi.

Pubblicato sul numero 48 della Falla, ottobre 2019