«Veramente io sono omosessuale e non penso proprio di essere un pedofilo, né tantomeno un naziskin». Ecco, l’ho detto. Davanti a tutti, a sedici anni, in una calda ora di religione di fine maggio. Ai miei genitori e a mio fratello l’avrei chiarito diversi anni dopo. Alla mia migliore amica, invece, il segreto era stato rivelato qualche mese prima, al cinema, guardando Alexander, di fronte alle chiappe sode di Colin Farrell: un culo che parla e che fa parlare.

Avevo finalmente imparato a voler bene a quella che consideravo la mia deformità mostruosa. Mi ci era voluto parecchio tempo e parecchio impegno ma ero arrivato a quel momento con la consapevolezza che il lavoro più faticoso, quello su me stesso, era stato fatto. Sapevo che l’indicibile attraverso cui mi ero torturato per una vita intera poteva essere messo a disposizione degli altri e sapevo che questa parte di me sarebbe diventata irrecuperabilmente loro: appena lo dici non sei più l’imperatrice assoluta di un’ombra che puoi evocare ed esorcizzare a tuo piacimento, appena ti definisci appartieni a chi ti ascolta e sei nelle loro bocche, senza alcuna possibilità di controllo.

Ero arrivato a quell’ora di religione con tutto questo dentro. Spaventato a morte ma con l’urgenza di dirmi. Ormai da qualche mese stavamo affrontando il tema dell’omosessualità e io avevo fatto l’alunno diligente ma distaccato, opponendo agli anacronismi del Levitico il messaggio d’amore universale di Cristo. Sfidavo il prof sul suo stesso terreno, ma rimanevo comunque due passi indietro rispetto a me stesso. 

Quell’insegnante era solito fare paragoni arditi. Affrontando il tema dell’aborto, ci chiese quale fosse la differenza tra una donna che decide di rinunciare a suo figlio e un naziskin che ammazza una persona, non del tutto convinto che i due gesti fossero poi così diversi. Dunque era scritto: il parallelismo tra omosessualità e pedofilia sarebbe prima o poi dovuto saltar fuori, e così fu. In quel momento, il magma eretico che premeva da dentro è eruttato e mi sono sentita l’amazzone di tutte le frocie, l’eroina che avrebbe dovuto salvare l’onore dell’intera casata. Mi sono buttato: «Veramente io sono omosessuale e non penso proprio di essere un pedofilo, né tantomeno un naziskin». Ecco, l’avevo detto. Davanti a tutti. Ma nessuno aveva sentito. Non il prof, non i ragazzi con me in quell’aula dalle tende rosse. L’unica a udire quello che era uscito dalla mia bocca fu l’insegnante di sostegno di una mia compagna di classe, che interruppe la discussione: «Ma voi avete sentito cos’ha detto Mattia?». Silenzio tombale. Seduto in fondo all’aula, vedo tutte le teste che si voltano verso di me. Devo rifarlo. Devo ridirlo. Una parata di occhi attenti che mi fissano. «Veramente io sono omosessuale e non penso proprio di essere un pedofilo, né tantomeno un naziskin». Silenzio. Il prof abbassa gli occhi, aggiustandosi gli occhiali. Mormora «adesso è complicato». Suona la campanella. Sipario.

Pubblicato sul numero 53 della Falla, marzo 2020