Mi avvalgo della facoltÀ di rispondere

di Francesco Colombrita

Il 17 aprile 1995 il quotidiano turco Milliyet pubblica un articolo dal titolo Atakȕrt, efficace crasi tra il nome dello storico fondatore dello stato turco (Mustafa Kemal Atatȕrk) e il nome di uno dei più grandi gruppi etnici perseguitati della storia recente: i curdi. A firmarlo è Ahmet Altan che ha deciso di raccontare, per ucronia, la Turchia del suo tempo se il fondatore della patria fosse stato di etnia curda. È solo uno dei tanti atti di rivolta e anticonformismo di questo giornalista, che per quell’articolo viene licenziato. Dopo aver diretto diverse testate, aver condotto trasmissioni tv, scritto saggi e romanzi resistendo agli assalti del governo, nel 2016 Altan viene arrestato e, con un processo farsa, accusato di essere complice dell’organizzazione terroristica considerata colpevole del famoso, e fallito, colpo di stato. La pena richiesta è l’ergastolo

Nel 2007 Firat Hrant Dink, giornalista e scrittore, viene avvicinato da un giovane fuori dall’ufficio del suo giornale, Agos (famosa testata bilingue turco-armeno), e ucciso a sangue freddo. La sua colpa è quella di aver cercato di parlare dell’eccidio subito dagli armeni e di altri problemi legati alla marginalizzazione della comunità di cui anch’egli faceva parte. Nei suoi confronti era già attiva una gogna mediatica e processuale da anni, tanto che, nel 2005 Dink fu condannato a sei mesi di reclusione secondo il terribile articolo 301 del Codice Penale, che sanziona l’offesa dell’identità turca.   

Nel 2006, contro ogni pronostico, la scrittrice e accademica Elif Shafak vince un processo per lo stesso articolo di legge. La colpa, anche in questo caso, è quella di aver scritto un romanzo, La bastarda di Istanbul, in cui si parla del genocidio degli armeni. Nel suo caso la stampa internazionale e locale, oltre alla pressione di svariati governi, è riuscita a mitigare l’opinione della corte. Non prima che la stessa Shafak, incinta all’inizio del processo e partoriente poco prima dell’udienza che l’ha vista assolta, ricevesse una telefonata del tutto inattesa dal presidente Erdogan in persona, desideroso di congratularsi per la gravidanza: «Spero che Dio vi doni una vita felice e prospera». Deferenza che sa tanto di minaccia.

Inizio ottobre 2019, una raffica di arresti mette il bavaglio a molti giornalisti turchi di fronte alla scellerata decisione di Erdogan di invadere il Kurdistan. 13 ottobre 2019, il messaggio del governo turco è forte e chiaro: viene bombardato un convoglio carico di civili e giornalisti schierati dalla parte dei curdi. Almeno venti i morti, e svariati i feriti. Tutto ciò non più di qualche giorno dopo l’atroce assassinio di Hevrin Khalaf, attivista e politica curda, codirettrice del partito del Futuro Siriano: dopo aver previsto e condannato, in un’intervista televisiva, l’imminente blitz turco un furgone su cui viaggiava è stato crivellato di colpi da milizie siriane filo-turche: lei ancora viva è stata fatta scendere e fucilata. 

Ciò che si profila è terrificante ma rimane fondamentale investire tutte le proprie energie nella più grande delle conquiste: il diritto di parola. Non importa se l’eco delle bombe giunge da terre lontane e sconosciute, l’arma più forte che abbiamo è informarci, prendere voce, prendere posizione, parlare, affinché sia sempre più difficile, in ogni dove, mettere un bavaglio a chi lotta per l’informazione e per il futuro contro un potere dispotico e pericoloso.