Uno spettro s’aggira per l’Italia, ed è la nostra voce. Sono i nostri corpi. L’elefante nella stanza del Paese è la nostra dissidenza. Non in quanto comunità che forse non siamo, ma in quanto filo rosso che lega le nostre lotte e che la dialettica politica riduce a una pretesa di progressismo quando si tratta invece della necessità di esistere. È questo ciò che abbiamo sempre fatto, noi come redazione e noi come attivistə: dare spazio alla frattura, sostanza alla lotta, emersione all’imprevisto. 

La Falla, quest’anno, celebra una decade dalla sua nascita e se al nostro primo lustro uscimmo con la dichiarazione, rubata a Audre Lorde, «Non era previsto che sopravvivessimo» oggi non rimane che dirci che invece era perfettamente prevedibile che non ci saremmo davvero fermate. Abbiamo rallentato, abbiamo attraversato un percorso interno di ristrutturazione e ora torniamo. L’unica certezza ormai è che, come siamo abituate a fare in quanto persone marginalizzate e oppresse, sappiamo abitare la trasformazione. Sappiamo cosa siamo, ora e in passato, e stiamo immaginando cosa diventare. Allargheremo questa riflessione in modo da contaminarci sempre di più: vogliamo che abbracci chi ci legge come chi sceglie di prendere parte attiva alle nostre attività. Non vogliamo essere meno di ciò che siamo sempre statə: un processo. Un meccanismo che in primo luogo attraversa noi e mette in connessione le nostre prospettive con quelle più inattese, le nostre lotte con tutte quelle che meritano di essere portate avanti. «Noi siamo Legione, perché siamo in molte» scrivevo anni fa in un altro editoriale, aggiungendo che la cosa non doveva spaventarci. Mutatis mutandis, allora come oggi, credo che il punto sia ancora quello, ed è certamente quella la forza della Falla che ora torno a coordinare al termine di quella fase di ristrutturazione che ci ha visto rallentare. Prendo in mano un testimone che reggiamo tuttə insieme, e il bello è proprio questo.