TETTE FUORI, DELLA NUOVA CAMPAGNA DI CHEAP E DELL’IPOCRITA ALGORITMO DI FACEBOOK. UN’INTERVISTA A SARA MANFREDI.
Pensateci bene: se dieci, venti anni fa sulle nostre spiagge potevamo vedere topless e, naturalmente, starci, oggi vediamo bambine costrette in reggiseni allo stesso tempo pudici e sessualizzanti.
Perché è questo il grande controsenso, una società dove il seno è contemporaneamente oggetto di piacere, frutto proibito e appetitoso, sbattuto in prima serata o sulle copertine, ma anche peccaminoso e da censurare. Soprattutto se parliamo di capezzoli. Soprattutto sui social.
Manco a dirlo però, vale solo per il seno delle donne.
Proprio su questa grande contraddizione si basa la nuova campagna di Cheap.
Ce la siamo fatta raccontare da una delle sue ideatrici, Sara Manfredi, e attraverso le fotografie di Margherita Caprili.
Come nasce l’idea di Tette fuori?
La sessualizzazione del corpo delle donne, nello specifico del seno, è un dato evidente. Eppure di fronte ad altre circostanze quali l’allattamento, il seno di una donna diventa da censurare. Perché secondo voi?
Temo sia il male gaze, lo sguardo maschile: uno sguardo che riduce le donne e i loro corpi a oggetti sessuali. Da una parte sei un sextoy e quindi vieni ipersessualizzata, dall’altra vieni colpevolizzata se dai una destinazione non erotica al tuo corpo: se servi al piacere maschile vieni spogliata, se ti spogli in un gesto di autodeterminazione vieni additata.
C’è seno e seno. La policy dei social media ha parametri diversi per quello maschile e quello femminile. Perché?
I social media e le loro simpatiche policy ricalcano questi modelli e a volte producono norme schizofreniche: i capezzoli, i seni, non sono organi sessuali; quelli degli uomini possono essere mostrati, quelli delle donne no. La censura dell’algoritmo sui nostri corpi agisce in secondi e produce la rimozione dei contenuti. Invece, se chiedi la rimozione di un contenuto sessista, razzista o xenofobo, la cosa non succede: ti senti rispondere che il contenuto «non viola gli standard della community», una dichiarazione di concussione.
Come nasce una campagna come questa e come le altre che l’hanno preceduta?
Che cos’è e come nasce Cheap?
Cheap è un progetto di arte pubblica che interviene con poster o paste up sul paesaggio urbano di Bologna; è nata come un festival internazionale di street art di cui abbiamo realizzato cinque edizioni, poi abbiamo avuto il buon senso di diventare altro, un laboratorio permanente. Abbiamo scelto il nome Cheap perché crediamo che l’ironia sia una forma di intelligenza da coltivare. Per noi funziona come un memo per evitare di scivolare nella self mithology e prendere troppo sul serio il nostro lavoro. Ci occupiamo di arte pubblica e lo facciamo con la carta, il materiale più effimero che siamo riuscite a trovare, per molti il materiale più cheap a cui si possa pensare: questo ci posiziona in una prospettiva anti-monumentale e ha fatto in modo che familiarizzassimo con l’idea che – fortunatamente – niente dura per sempre. Siamo a nostro agio con l’approccio al contemporaneo come temporaneo.
Cheap è un progetto che da anni ormai fa parte del tessuto urbano della città. È un qualcosa di ripetibile (o già ripetuto) in altre città? Cosa rende speciale il rapporto tra Cheap e Bologna?
Alcune delle campagne di Cheap hanno destato scalpore e polemiche. Quale vi sareste aspettate e quale vi ha colpite di più?
Quando a giugno del 2020 abbiamo installato i poster di La lotta è FICA sapevamo che avremmo avuto il sostegno di chi riconosce la necessità di un cambio culturale del paradigma esistente, di chi pratica i femminismi, di chi contesta i lasciti coloniali, di chi sperimenta nuove forme di rappresentazione. Ma ci era anche molto chiaro che saremmo state attaccate ferocemente e funzionalmente da chi invece pratica un populismo becero come propria raison d’être, da chi produce ciclicamente discorsi d’odio e di indignazione retrograda. Ormai pare inevitabile essere attaccate, insultate e minacciate: è successo a noi e ad artistə che hanno lavorato con noi. La celebrazione all’interno dello spazio pubblico dei simboli del patriarcato, del privilegio maschile, del suprematismo bianco e della storia coloniale, è al centro di un dibattito mondiale: se in Italia la statua dedicata a Montanelli è stata oggetto di un’azione politica e di un gesto che noi riconosciamo come performativo, negli Stati Uniti tocca a Cristoforo Colombo.
Ecco, noi eravamo pronte al peggio. Ma non successe nulla. Una critica d’arte si spiegò la cosa col migliore dei complimenti che potessimo aspettarci: «Era troppo sofisticato, i diretti interessati non potevano capirlo».
Foto di Margherita Caprilli
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