Quando nel 2011 l’Università di Yale annunciò l’apertura di un campus a Singapore, buona parte dell’accademia americana insorse, seguita da organizzazioni come Human Rights Watch. Parte dell’indignazione scaturiva dal record scadente di Singapore nella protezione dei diritti umani: secondo Reporters senza frontiere, il livello di libertà di stampa a Singapore è peggiore che in Turchia e in Messico e appena superiore a quello dell’Egitto, il che è indicatore di probabili ostacoli anche alla libertà accademica. Ma soprattutto, Singapore mantiene in vigore la “Sezione 377a” del Codice penale, eredità del codice penale britannico in vigore durante il periodo coloniale, che criminalizza l’omosessualità (maschile); nonostante questa legge non venga applicata da diversi anni, rimane a valore “simbolico”. Comprensibilmente, varie personalità legate a Yale, che ha fama di essere un’università particolarmente friendly, inorridirono all’idea della nascita della progenie asiatica, oltretutto progettata in collaborazione con l’Università Nazionale di Singapore (NUS), che in quanto istituzione pubblica è strettamente legata al governo. Così, “Yale-NUS”, il bambin prodigio di Yale e NUS, nacque nel bel mezzo di controversie internazionali.

Quattro anni e qualcosa dopo, una delegazione di studenti e staff di Yale-NUS in visita a Yale viene accolta in pompa magna dai vari creatori e sostenitori del progetto. Come prova del successo della succursale di Singapore, si citano le attività dell’organizzazione studentesca LGBTQ The G Spot (Il punto G), definita la dimostrazione che le critiche ricevute inizialmente erano infondate, in quanto gli studenti non subiscono restrizioni di alcun tipo all’interno dell’università. Anzi, Yale-NUS ha un’importanza fondamentale nel “portare valori di tolleranza nella società di Singapore e creare spazi che non sarebbero altrimenti concepibili”. La concezione di Yale-NUS come strumento per una specie di missione civilizzatrice nella società conservatrice di Singapore è comune tra i sostenitori del progetto a Yale e, in effetti, The G Spot è l’unica organizzazione studentesca LGBT+ a Singapore che riceve un riconoscimento ufficiale (e quindi fondi) da un’università. Al tempo stesso, però, quest’aspirazione a introdurre un cambiamento sociale è percepita come un’operazione di imperialismo culturale a Singapore, un paese con un passato coloniale e una relazione ancora conflittuale con l’Occidente.

Questa tensione è fondamentalmente prodotto di due narrative fittizie: da una parte, il governo di Singapore ha da lungo tempo appropriato un linguaggio nativista e anti-coloniale per proteggersi dalle critiche per le violazioni dei diritti umani da parte dello Stato, invocando fantomatici “valori Asiatici” per difendere il mantenimento della Sezione 377a. Dall’altra parte, Yale ama pensarsi (e pubblicizzarsi) come una forza progressista che contrasta un Stato oppressivo, quando in realtà le libertà eccezionalmente concesse agli studenti di Yale-NUS sono state negoziate a tavolino con il governo di Singapore, che è attivamente coinvolto nel progetto Yale-NUS. L’ambasciatrice di Singapore Chan Heng Chee, che all’inizio di quest’anno ha difeso il mantenimento della Sezione 377a alla Revisione Periodica Universale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, siede nel consiglio di amministrazione di Yale-NUS: pochi giorni prima di presentare i successi dell’università durante la visita a Yale, l’amministrazione di Yale-NUS era impegnata a tessere lo lodi di Chan con gli studenti che chiedevano spiegazioni in seguito all’episodio della Revisione Periodica Universale.

Nonostante sia vero che Yale-NUS ha creato possibilità per l’attivismo LGBT+ a Singapore che prima non esistevano, l’università fondamentalmente è uno strumento di pinkwashing sia per Yale che per il governo di Singapore: la prima può vantare i risultati positivi della propria presenza nel paese, seppur tali risultati siano dovuti all’attivismo portato avanti dagli studenti non grazie a ma nonostante l’amministrazione di Yale-NUS; il secondo può proiettare internazionalmente un’immagine più aperta e tollerante senza attuare nessun cambiamento significativo nella situazione della comunità LGBT+.

pubblicato sul numero 16 della Falla – giugno 2016