UNA LETTURA DI RAGAZZA, DONNA, ALTRO DI BERNARDINE EVARISTO PER IL PROGETTO LETTURE IN TRANSITO 

Letture in Transito è un’iniziativa nata dalla collaborazione tra Arca di Noè e le associazioni Arcigay Il Cassero, Movimento Identità Trans MIT, Il Grande Colibrì. L’iniziativa è stata promossa anche  da ASP Città di Bologna ed è finanziata dal SIPROIMI/SAI. Una serie di cinque incontri di lettura condotti dalla biblioterapista Giulia De Rocco, per conoscere le storie delle soggettività LGBTQIA+ e i Paesi d’origine dei  migranti. 

Si sente spesso sostenere, in ambito reazionario ça va sans dire, che piegare l’arte alle necessità politiche della rappresentazione avrà l’effetto di inaridirne l’espressione. In particolare per quanto riguarda la lingua e il suo possibile utilizzo. È meraviglioso, nel 2021, poter leggere un romanzo ambizioso e sperimentale, che nella sua plastica imponenza fuga in fretta ogni dubbio, sullo stato dell’arte. 

Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo è quel romanzo. Nel Regno Unito contemporaneo, ma con salti temporali che spaziano anche di qualche decennio, si trovano a muoversi dodici donne che sono nere, migranti, lesbiche, povere, istruite o meno, o persone che rifiutano la categoria stessa di donna (o uomo) e si definiscono non binarie. Di queste personagge, chi ha la fortuna di avere il libro tra le mani può sentire le voci, la storia, le emozioni e le difficoltà. Sì perché Evaristo, nel riuscire a cogliere e mettere nero su bianco lo spirito stesso della contemporaneità femminista, sceglie di frammentare il racconto con un narratrice extradiegetica, ma che svanisce nascosta dietro a brevi capitoli che narrano la storia, di volta in volta, di una persona in particolare. Di fatto, così, il piano della narrazione si focalizza e quella narratrice esterna e onnisciente si incarna in una voce specifica, che sembra parlare solo per sé e la propria storia. 

In un qualche modo il collante principale è Amma, sceneggiatrice nera lesbica non monogama che ha fatto della sua vita stessa una lotta per la visibilità. È la sua voce ad aprire il romanzo, posizionando cronologicamente la narrazione alla vigilia di una sua rappresentazione teatrale: L’ultima amazzone del Dahomey. Quasi tutte le personagge di questa storia si troveranno ad assistere alla prima di questa pièce, o a leggerne una recensione, facendo confluire le proprie storie sul palcoscenico di un’opera che non viene mostrata alle lettrici, ma che diviene forse il simbolo di tutte le voci che compongono il romanzo.

L’autrice, scrittrice londinese di lunga data, non si chiama fuori dal conflitto (anche generazionale) del movimento femminista odierno, ne mostra anzi tutte le criticità. Ad esempio per bocca di Dominique, che si lamenta della mercificazione legata alla popolarizzazione del femminismo:

«in effetti è la mercificazione del tutto che mi dà fastidio, Amma, un tempo le femministe venivano così diffamate dai media che intere generazioni di donne hanno rinunciato alla propria liberazione perché non volevano sentirsi accusate di esserlo, mentre adesso ci vanno in brodo di giuggiole, le hai viste le foto di tutte queste giovani femministe strafiche vestite mezze punk che se la tirano – finché non sarà più un fenomeno di tendenza il femminismo deve spostare placche tettoniche, non serve che si rifaccia il trucco per essere alla moda»

Che poi però non si trattiene neanche dal dire:

«e un’altra cosa che non sopporto sono queste trans rompicoglioni, avresti dovuto vedere quante me ne hanno dette quando ho annunciato che il mio festival era per le donne nate donne, non le donne nate uomo […]».

Il livello di sperimentazione di Bernardine Evaristo non si ferma però certo ai contenuti. Attraversa ogni pagina, ogni riga del testo, in una narrazione in cui si direbbe che l’autrice abbia fatto esplodere il flusso di coscienza, portando all’estremo sperimentazioni che ricordano Virginia Woolf. La punteggiatura è quasi inesistente, giusto qualche virgola ogni tanto. La formattazione del testo non prevede maiuscole, se non per i nomi propri, e così ogni capoverso si genera come corpo a sé, giocando anche col vuoto tipografico che viene utilizzato per isolare periodi il cui ritmo somiglia molto a quello di una leggera corrente.

Ed è proprio quella corrente a raccontare storie di razzismo e xenofobia, vite di migranti di prima, seconda o terza generazione in cerca di un posto dove stare in un Regno Unito che ancora tarda a scrollarsi di dosso il proprio colonialismo.

Il passato, in questo libro che si è aggiudicato il prestigioso Booker Prize nel 2019 (ex aequo con I testamenti di Margaret Atwood), è un tempo sommerso da non accogliere necessariamente nella sua totalità. Come pare voler fare Morgan, attivista gender free che ha dovuto superare le rigide aspettative sociali in merito al genere assegnato alla nascita, e che guardando il Tamigi desidera buttare nel fiume un bicchiere vuoto, ragionando su quanto, del tempo, sia sommerso e dimenticato sui fondali del fiume, incapace di seguire la corrente. 

Rue de Berne, numero 39, di Max Lobe è stato oggetto del primo incontro del gruppo Letture in transito