di Vincenzo Branà

C’è tanto di insopportabile nelle immagini di profughi – uomini, donne, anziani e tantissimi bambini – che marciano scalzi, tra il fango e i corsi d’acqua, rimbalzati da un filo spinato all’altro nel corridoio di terra tra la Grecia e la Macedonia. Ed è un grido che interpella il “please!” con cui questa moltitudine implora gli eserciti affinché aprano un varco e garantiscano una destinazione alla loro fuga.

Allo stesso modo, indignano le immagini di quella mendicante a Roma su cui un tifoso dello Sparta Praga urinava in segno di disprezzo, per esibizione di potere. Esiste dentro e fuori i nostri confini una pratica consolidata all’umiliazione e alla criminalizzazione della povertà; un fenomeno con mille sfumature, dal pietismo alla violenza, un disprezzo che si somma a tutti gli altri – razzismo, misoginia, islamofobia, omotransfobia – e che mentre stende il filo spinato a centinaia di chilometri da qui, mette nero su bianco ordinanze anti-mendicanti a casa nostra.

Tutto questo non succede altrove, in un altro tempo: queste immagini convivono nel tempo e nello spazio con la nostra mobilitazione per il riconoscimento dei diritti delle coppie same sex, quella in cui la retorica della civiltà ha decisamente spopolato e “civile” è stato senza dubbio l’aggettivo più inflazionato nei ragionamenti e negli slogan. Passato il primo round al Senato e mentre ci prepariamo al secondo, potremmo concederci il tempo di riflettere sulle parole in cui siamo stati immersi, le nostre innanzitutto. Mettendole in relazione col mondo, con tutte le altre parole. Chiedendoci ad esempio se, nel definire questo paese civile, o più civile, non stiamo per caso additando implicitamente l’inciviltà di qualcun altro, e fornendo perciò un motivo in più per respingerlo. Varrebbe la pena rifletterci, non è un dubbio marginale, perché potrebbe farci scoprire che siamo anche noi, proprio noi, a fornire calce e mattoni a chi ancora oggi, in tutto il mondo, costruisce muri.

pubblicato sul numero 14 della Falla – aprile 2016