di Vincenzo Branà

La prefazione di Autobiografia di una rivoluzionaria, il libro in cui Angela Davis racconta le battaglie per i diritti civili che ha attraversato nell’ultimo mezzo secolo, si apre con una frase emblematica: “non intendevo scrivere questo libro”. Il rischio, spiega, era quello di far collassare una vicenda politica plurale e complessa in una dimensione personale, che la rappresentasse come diversa da tutte le altre persone che accanto a lei giocarono un ruolo in quelle battaglie. “Se alla fine mi sono decisa a scriverlo – chiarisce in quella prefazione – è stato perché ho preso a considerarlo un’autobiografia politica”. E più avanti: “un libro così – prosegue – poteva servire a uno scopo pratico molto importante. Forse, dopo averlo letto, altra gente avrebbe capito perché tanti di noi non hanno altra scelta che dedicare la propria vita – il corpo, il sapere, la volontà – alla causa del nostro popolo oppresso”.

La politica, raccontata così, sembra distante anni luce da quella che leggiamo sui giornali e soprattutto dalle persone che in Italia ricoprono un ruolo in questo racconto. L’idealismo ostinato di cui parla la militante comunista sembra dissolto in un groviglio di opportunismi, trasformismi e convenienze che respingono, a volte perfino disgustano, e confinano molte e molti in un Aventino bilioso e senza speranza. Eppure, ci ricorda Angela Davis, ci sono persone che dedicano tutta una vita alla battaglia per i diritti degli “ultimi”, magari senza clamori ma non di certo nell’isolamento di un colle lontano dalla polis. Perché la polis – cioè la città, lo spazio pubblico – è il presupposto di qualsiasi rivoluzione.

Sarebbe bello, allora, che guardassimo all’appuntamento con le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno con questa idea nella testa, indipendentemente dalla preferenza che andremo a esprimere. Sarebbe importante che scegliessimo tutte e tutti di costruire la nostra piccola o grande rivoluzione partendo dal voto e accantonando l’idea pigra di un astensionismo di protesta, che è di certo più comodo che efficace. Sarebbe bello che interpellassimo, come ha fatto Angela Davis, il senso politico delle nostre biografie, che ci mettessimo la rabbia e la delusione, o l’entusiasmo e la determinazione. Andando a votare, innanzitutto, per onorare il momento in cui il potere torna nelle nostre mani e ci chiede una scelta. Abbiamo un mese per convincercene, possiamo farcela.

pubblicato sul numero 15 della Falla – maggio 2016