di Vincenzo Branà

Bisogna chiudere tutte le chiese cristiane sparse sul territorio algerino e trasformarle in moschee: lo sosteneva, sette mesi fa, il leader algerino salafita Abdel Fattah Zarawi, presidente del Fronte libero salafita d’Algeria. La sua proposta, spiegava, era la legittima reazione agli episodi di islamofobia registrati in molti Paesi europei, in particolare in Francia. Va specificato che i salafiti, che in origine erano un movimento sinceramente religioso, promotore di un ritorno all’Islam puro ma non tradizionalista, oggi sono coloro che vogliono implementare la legge islamica, la sharìa, attenendosi a un’interpretazione letterale del Corano e mostrando diffidenza o rifiuto per qualsiasi concetto importato dall’Occidente.

Per i salafiti come Abdel Fattah Zarawi, insomma, la libertà di espressione può essere concessa solo a coloro che vogliono propagandare l’Islam. Cito la proposta – mai realizzata – del fanatico algerino perché assomiglia evidentemente a quella avanzata da Lega Nord e Fratelli d’Italia dopo i fatti di Parigi. Stessa proposta ma di segno opposto: chiudere tutte le moschee, ci sono ostili, sono pericolose. Libertà di espressione sì, ma non a chi professa l’Islam. I salafiti del Belpaese ragionano esattamente come quelli dall’altra parte del Mediterraneo, da sempre: questa considerazione dovrebbe convincerci a trasformare una volta per tutte l’asfissiante paura dell’altro in una più opportuna paura di noi stessi. Perché così come vendiamo le armi a chi le usa per fare attentati, allo stesso modo esportiamo modelli, dal fanatismo al terrorismo, di cui dovremmo – se fossimo onesti – riconoscere e rivendicare la paternità, con la dovuta vergogna.

Le persone LGBT, poi, non piacciono affatto ai salafiti, tanto a quelli algerini quanto ai nostri dalle camicie verdi e i saluti romani. Pare quasi sciocco specificarlo, eppure capita spesso di incontrare un gay o una lesbica che si sente nelle grazie dei fanatici e serenamente si incammina verso quello che scoprirà troppo tardi essere il suo patibolo. In questo gioco degli specchi, insomma, non solo si fatica a riconoscere l’oppressore, ma a volte ci si dimentica perfino di essere oppressi.

Al liceo, il mio professore di storia, giunto il momento di raccontare la scoperta dell’America, sospese la lettura del libro di testo e ci portò delle fotocopie: voleva raccontarci l’evento più importante della storia dell’Occidente non dal punto di vista ordinario, cioè quello degli spagnoli, bensì adottando lo sguardo degli indios, delle popolazioni che videro Colombo arrivare dal mare. Scoprimmo un’invasione violenta, un genocidio spietato. Un cambio del punto di vista riesce a offrire chiavi di lettura inedite su un fenomeno. Per noi persone LGBT questo cambio di visuale rispetto al racconto del nostro presente non è solo un’opzione: dovrebbe essere un bisogno ineludibile, perciò quasi un dovere. Perché in Italia, per chi non l’avesse capito, noi siamo tra gli indios.

pubblicato sul numero 10 della Falla – dicembre 2015