IL 26 APRILE E IL PARADOSSO DELL’INVISIBILITÀ NEL GIORNO DELLA VISIBILITÀ

In questo articolo non si parlerà di Audre Lorde. Chi fa parte dei movimenti – o ne ha fatto parte – ormai conosce a menadito la letteratura lesbica e sa a cosa ci riferiamo quando parliamo di visibilità, almeno in senso politico. Questa volta la prospettiva vorrebbe essere diversa. Non voglio fare un racconto di come e perché il movimento lesbico sia riuscito a ritagliarsi il suo spazio nell’agone politico e all’interno del movimento di liberazione e nemmeno voglio parlare di cosa sia diventato oggi.

No, oggi, 26 aprile, vorrei approfondire due questioni: cosa vuole dire essere visibili – e conseguentemente invisibili – ma soprattutto cosa vuol dire esserlo all’interno di un mondo di alleate che spesso in realtà sembra relegare alle lesbiche uno spazio molto, molto marginale.

Il 26 aprile è la giornata della visibilità lesbica ed è probabile che nemmeno lo sappiate. È facile che, infatti, la giornata di oggi e tutti i 26 di aprile che l’hanno preceduta vi siano passati inosservati. 

Vi invito a fare un test empirico: cercate su Google «Giornata della visibilità lesbica». Con grande orgoglio tra i primi risultati c’è un nostro pezzo, e lo potete leggere qui. Scorrendo, poi, a parte una manciata di articoli di altre testate a tema, troverete poco o nulla.

Qui c’è il primo paradosso: la giornata della visibilità lesbica gode di poca visibilità. Perché? Bella domanda. Per provare a rispondere voglio utilizzare una serie di piccole interviste che svolsi lo scorso anno – finora inedite – proprio per questa ricorrenza. Approfittando del periodo di isolamento, chiesi ad alcune donne – cis e trans – che si identificano come lesbiche cosa volesse dire per loro essere visibili, perché sono proprio le loro storie che ci dicono che sulla visibilità c’è ancora tanto lavoro da fare.

«Non sono certo la più sfortunata d’Italia, ma ho avuto la mia dose di problemi, nonostante tutto. Quando ho fatto coming out a 17 anni mia madre mi ha praticamente diseredata, mi ha urlato addosso quanto le facessi schifo e quanto io fossi la sua ultima speranza di felicità […] Per il primo periodo non mi guardava, piangeva solo, è caduta in depressione, non mangiava, non dormiva e tutto questo contribuiva a farmi vivere sempre peggio questa mia modalità d’essere. Dopo cinque anni ormai mi accetta passivamente per quella che sono, cerca di parlarmi, ma per il più evitiamo il discorso. Mio padre, di contro, è sempre stato dalla mia parte, seppur con qualche remora; chiama la mia fidanzata amica, spera che sia una fase e ogni tanto mi dice che posso andare con gli uomini anche senza fidanzarmi; mia madre continua a sperare io torni magicamente etero». La vita di questa ragazza, di famiglia che lei stessa definisce borghese, cambia quando finalmente si trasferisce in una grande città del nord: «Non è mai stato facile per me accettarmi. Nonostante dentro di me la consapevolezza si fosse palesata anni prima del mio coming out, non sono mai riuscita realmente a farci i conti. Da quando vivo a **** sono molto più serena, anche con le altre persone».

Se la ragazza di prima si ritiene fortunata – o quantomeno non tra le più sfortunate – lo stesso non si può dire di un’altra, poco più che ventenne e proveniente da un paesino del nord Italia: «Sono nata e cresciuta in un paese abbastanza piccolo, da cui spero presto di potermene andare. Per me essere lesbica nel 2020 è ancora complicato. I miei genitori non hanno mai accettato la cosa, e appena ho potuto sono andata via di casa per potermi sentire libera almeno a casa mia, anche se sentirsi libera solo tra quattro mura non è il massimo». Per questa ragazza, impiegata in una piccola attività di paese, «quando ha cominciato a spargersi un po’ la voce, sia i miei titolari che io abbiamo dovuto negare tutto, dire che erano solo pettegolezzi, ed è stato abbastanza scoraggiante». 

Un’altra donna racconta: «Non sono del tutto dichiarata, lo sa la mia famiglia, la mia compagnia di amici gay e qualche amico etero stretto, tutto il resto del mondo non lo sa. Sono molto femminile e non desto sospetti. Anche a lavoro non sanno niente. Quindi, come vivo la mia omosessualità? Ti dirò che tutto sommato la vivo bene, perché comunque le persone a me care sanno tutto. Dichiararmi al 100 per cento non so se sarà un passo che farò mai in futuro. La libertà dell’individuo dovrebbe andare di pari passo con la libertà sociale, purtroppo non è sempre così. La libertà individuale viene accettata dalla società, se eticamente viene riconosciuta come sana, come normale… tutto ciò che è diverso non viene tollerato. Per me, libertà sociale è sinonimo di libertà di espressione nel senso più ampio del termine… Moltә si costruiscono una corazza proprio per questo motivo, ovvero per un’autodifesa personale che dovrebbe proteggerci dagli attacchi esterni».

Emblematica la risposta: «Ciao, più che visibilità, io ti posso raccontare la mia non visibilità o comunque la mia è una visibilità parziale. Ti va bene lo stesso?»; ci sono state anche risposte affermative: «Sono una persona che ama sentirsi libera e voglio poter amare me stessa al 100 per cento. Nasconderla vorrebbe dire nascondere me stessa e non amarmi abbastanza. Voglio viverla pienamente, anche se avrò sicuramente persone con cui mi scontrerò».

Queste storie non sono eclatanti quanto quella di Malika, la ragazza cacciata di casa la cui storia è stata raccontata da Fanpage e di cui si è molto parlato in queste settimane, ma sono comunque indicative della lesbofobia di cui si deve tenere conto quando decidiamo di esporci o di fare coming out. La visibilità, purtroppo, non è per tutte e non è un biasimo.

L’idea di visibilità cambia tra chi è politicizzata e ce lo fa capire bene Maria Laricchia, di Lesbiche Bologna: «Parlare di visibilità lesbica oggi, come ieri, vuol dire praticare con il proprio corpo un atto politico. Vuol dire rivendicare una soggettività che sente la spinta di liberarsi da una cultura eteronormata e patriarcale, che non contempla, è lesbofoba, che invisibilizza. Penso che ciascuna, anche a seconda del contesto che attraversa, viva la propria visibilità lesbica con espressioni differenti. Nominarsi lesbica ed essere visibile, per me, vuol dire praticare amor proprio. Parlare e praticare visibilità lesbica, per me vuol dire anche liberare altre lesbiche, facilitarle a riconoscersi, legittimarsi e uscire da quella solitudine in cui ci si sente le uniche al mondo. La visibilità lesbica delle singole e/o delle comunità lesbiche rappresentano una fonte di energia che si diffonde da lesbica a lesbica, le libera e può portare le singole ad avvicinarsi, conoscersi e costruire assieme ad altre lesbiche una dimensione collettiva che si trasforma in forza politica». 

Quando alcune persone decidono che sia meglio rimanere invisibili o vivere una menzogna, anziché poter condurre la propria vita alla luce del sole, ci dovremmo porre molte domande sia come società che come movimento. È indubbio che ci sia un grosso, enorme problema politico e culturale che investe non solo le donne in quanto tali, ma anche le donne lesbiche, colpevoli  – si fa per dire –  di far parte della minoranza di una minoranza. 

La percezione di essere parte di una minoranza nella minoranza io, e sono sicura come me altre compagne attiviste, l’ho colta anche scorrendo i cartelloni di eventi LGBTQIAP+ friendly o delle varie maratone femministe che negli ultimi mesi – vivaladea in un certo senso – hanno inondato la rete. In questi cartelloni, in questi programmi –  a eccezione di rari casi, spesso organizzati direttamente da associazioni lesbiche – la voce delle lesbiche non è presente. Non c’è, quasi come se le soggettività lesbiche potessero essere ricomprese a prescindere nell’alveo del femminismo – sia esso radicale o intersezionale – e non avesse specifiche storie da raccontare. Banale dirlo, ma non è così. Non tutte le femministe sono lesbiche e non tutte le lesbiche sono femministe, ma la soggettività lesbica resta una soggettività lesbica a prescindere. Perché si fatica così tanto a dare voce alle lesbiche anche in ambienti che dovrebbero essere friendly o addirittura alleati? Questa è una risposta che possiamo trovare soltanto insieme, ma solamente se ognuna – e ognuno – sarà disposta a fare un passo indietro e ad affrontare la questione con uno sguardo che sia allo stesso tempo più di insieme ma attento a una istanza specifica, e quella istanza si chiama visibilità lesbica, sia essa personale sia essa collettiva, ma soprattutto politica.

Buon 26 aprile sorelle, amiche, compagne, madri, alleate e anche nemiche. Perché di visibilità, davvero, ne abbiamo ancora tanto tanto bisogno.