Quel che resta dopo lo scandalo

di Vincenzo Branà

Negli anni Settanta del secolo scorso, Pasolini scriveva sul Corsera: “Chi si scandalizza è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato”. Scandalizzarsi in effetti è ancora oggi il più facile dei conformismi e l’indignazione, specie quella fine a se stessa, è la più imitata delle mode. Lo scandalo può essere perfino una ricetta già pronta a disposizione dei palati facili: basta un po’ di sesso, i soldi pubblici, volendo un abito talare. Ed è così che da anni mandiamo giù, assuefatti, scandali grossi e piccoli, veri o falsi, tragici o comici.

L’operazione portata avanti dalle Iene nell’arco di alcune settimane, con servizi sulle saune e i cruising bar affiliati al circuito Anddos, poteva benissimo essere inclusa in questo inflazionatissimo filone. Anzi, nelle ore successive alla messa in onda del primo servizio sembrava senza dubbio quello il destino della vicenda. Ma l’esito in realtà è stato tutt’altro: nei giorni successivi la questione si è gonfiata, travolgendo istituzioni, mass media, associazioni, in un balletto di accuse reciproche, gogne pubbliche, dimissioni, azioni legali. Scandali su scandali. Certo, il servizio era sessuofobico. E sensazionalistico, irrispettoso nei confronti delle persone e perfino delle norme che regolano la comunicazione radiotelevisiva. D’altronde si chiamano “Iene”, non “Colombe” né “Grilli Parlanti”. La trasmissione va sicuramente stigmatizzata, ma affrontarla in un corpo a corpo contingente, senza discutere il sistema che la legittima, rischia di essere soltanto un diversivo. Varrebbe la pena, al contrario, chiedersi cosa ha trasformato il tonfo in valanga, cioè quali anomalie hanno fatto sì che una storia che sembrava destinata al massimo a un corsivo di Belpietro, sia diventata un vero e proprio cataclisma. E bastano le due dimissioni, quelle del direttore di Unar e del presidente Anddos, a indicarci dove cercare.

La prima fragilità ha senz’altro a che fare con Unar: un’agenzia che si occupa di discriminazioni è di vitale importanza ma  questa importanza non è in alcun modo compatibile con le dimissioni a raffica di due direttori in due anni. La testa di Marco de Giorgi, predecessore di Francesco Spano, fu prima chiesta dai movimenti antigender nel 2014 per i libretti che Unar aveva realizzato per le scuole. Schivato quel primo fendente, De Giorgi cadde a fine 2015 per mano dello stesso premier Renzi che gli negò il rinnovo dell’incarico per aver ammonito con una lettera il linguaggio razzista dell’on. Meloni. Poi è arrivato Spano che dopo appena un anno abbiamo visto capitolare nell’affaire di un bando. Il dato che questa lettura ci consegna è quello di un’agenzia governativa fragile, in balia delle maggioranze di governo, dei ragionamenti di opportunità, dei rapporti di forza, dei legami di prossimità, dei movimenti pro e contro qualsiasi cosa. È un tema molto serio, su cui l’Europa ci rimprovera da tempo ma che le associazioni innanzitutto, nel terrore legittimo di perdere quel poco conquistato, non hanno mai osato porre con forza. E questa mancanza ha delle conseguenze e continuerà ad averle fino a quando non si avrà il coraggio di cambiare.

La seconda dimissione, quella del presidente di Anddos, punta invece il dito sulla fragilità delle associazioni in generale, non solo di quella coinvolta direttamente, alla quale comunque spetta una responsabilità particolare. Si è detto che le dark room rappresentano l’avamposto della nostra battaglia per la liberazione sessuale. Personalmente dissento da chi lo sostiene, sono più propenso a dire che quei luoghi sono nati sull’onda di quella battaglia: ne sono cioè l’esito, o meglio uno degli esiti, non la testa. E questo non toglie legittimità a quegli spazi né alle persone che li frequentano, ci mancherebbe. Però il movimento di liberazione sessuale, per come lo intendo io, si fonda innanzitutto su un presupposto particolare, che prende forma nel momento in cui il femminismo radicale degli anni Sessanta, con lo slogan “il personale è politico”, spostò la sessualità dalla sfera intima, personale, biologica e religiosa a un piano politico. Così facendo le donne si emanciparono dal dogma della sessualità come peccato, si riappropriarono dei loro corpi e dei loro desideri e denunciarono l’esercizio di potere che si giocava tra i generi nella sfera sessuale. L’omosessualità perciò entra nel discorso pubblico in una corrispondenza non casuale con un movimento anticonformista che rivendica i rapporti prematrimoniali, l’erotismo ludico, la masturbazione, la pornografia. E di conseguenza è senz’altro vero che il movimento Lgbt  e i luoghi in cui si articola hanno a che fare con la liberazione sessuale. Ma se è vero che nella dark room si pratica una libertà non è nella dark room che si combatte la battaglia politica, che non può sopravvivere al paradosso di una sessualità che mentre si libera dalla pubblica morale, si chiude nell’invisibilità e in alcuni casi si mette a servizio di altri paradigmi e di un meccanismo di profitto particolare. Ed è proprio il profitto il vero innominato in questa vicenda: perché se da un lato dispiace che l’annullamento di un finanziamento di 55mila euro blocchi il progetto di una rete di centri antiviolenza, dall’altro lato viene da chiedersi come mai un’associazione con oltre 200mila soci sia costretta ad appendere le sorti di un servizio importante a un finanziamento che – occhio e croce – dovrebbe avere un impatto minimo sul suo bilancio. Non si tratta di fare i conti in tasca, semmai di pretendere chiarezza sulla maglia che si indossa, perché la maglia del no profit ci costa grandi fatiche e la sua credibilità deve essere una priorità. In questo senso, la dichiarazione di un presidente che per allontanare il sospetto del profitto argomenta che qualche volta il massaggio è gratuito, è assolutamente irricevibile e richiede una parola di replica. Al Cassero, ad esempio, il profitto non c’è non solo quando l’ingresso è gratuito ma anche quando è a pagamento: non c’è perché ogni euro che circola viene reinvestito nelle attività dell’associazione e perché esiste un bilancio trasparente che testimonia questa corrispondenza. Questo non è un vezzo, questa è la condizione inderogabile per essere un’organizzazione no profit. C’è da sperare che sia chiaro a tutte e tutti, al di là delle risposte infauste davanti alle telecamere.

Infine, sempre a proposito del movimento di liberazione sessuale, c’è un’ultima cosa che è utile ricordare: ha a che fare con la storia, in particolare col momento in cui  negli anni Ottanta quell’impulso si frantumò contro il trauma dell’Aids. Quegli anni hanno tracciato un prima e un dopo: ci è costato molto come comunità tornare a praticare senza paura la nostra libertà sessuale, questo percorso va tenuto presente, senza semplificarlo, rimuoverlo o ancora peggio strumentalizzarlo. Per tornare ad essere un movimento di liberazione sessuale ci siamo fatti carico di capire, sapere, informare: per essere liber* e autodeterminat* abbiamo scelto di essere innanzitutto consapevoli. La nostra rivoluzione è ripartita da qui. 

Pubblicato sul numero 24 de La Falla – Aprile 2017 

 

Foto da https://www.gaybathhouse.org