Avevo undici anni l’11 settembre del 2001 quando vennero interrotte tutte le trasmissioni per diffondere a reti pressoché unificate l’orrore dell’attentato al World Trade Center. Ricordo con chiarezza l’immagine di puntini neri precipitare: corpi che cadevano nel vuoto in cerca di salvezza. Oggi ne ho trentuno e di nuovo ho visto corpi che precipitano, questa volta dagli aerei in partenza da Kabul, nel tentativo di fuggire dall’Afghanistan. 

Al di là delle posizioni specifiche sul ritiro, pare evidente che i venti lunghi anni dell’operazione Enduring freedom – passata poi sotto altri nomi – siano stati un fallimento e questo apre ad alcune riflessioni. La favola bella dell’esportazione della democrazia, bandiera rivendicata dagli Usa, ma mai davvero messa troppo in discussione dai Paesi del Patto atlantico, è giunta a conclusione: Giasone torna senza il vello, Tebe non viene salvata dalla peste e finalmente potremmo forse abbandonare il nostro paternalismo bianco e patriarcale nei confronti del cosiddetto Medio Oriente. 

L’Occidente-Eroe, che continuiamo imperterriti e imperterrite a promuovere come faro di democrazia, diritti, salvezza, gioca ancora (e non ha mai smesso di farlo) con tutto il resto del mondo sullo scacchiere dell’economia e dell’interesse privato, ben celato dietro una maschera di forti principi. Ci siamo raccontate che il nostro modo di vivere fosse il paradigma a cui puntare, e da lì a convincerci che fosse giusto – prima ancora che possibile – imporlo, il passo è stato breve. 

Si può solo tremare al pensiero di ciò che succederà ora in Afghanistan a seguito del ritorno al potere dei Talebani: tremiamo per le donne, per le persone LGBTQ+ e per qualsiasi minoranza oppressa. Ma detto questo e ben prima di indignarci dovremmo chiederci se fosse davvero possibile un esito differente. 

Non noi come singole, come soggettività che non spingono i bottoni del potere, ma come parte di una collettività che forse non ha mai davvero fatto i conti con il proprio passato coloniale. 

L’Afghanistan è solo l’ennesimo esempio di come non sia possibile applicare categorie politiche e di pensiero a una situazione che come la nostra non è. Abbiamo fatto la fine della rana bollita nella vasca di un’egemonia culturale di cui in qualche modo ci facciamo vanto. Ci raccontiamo, collettivamente, di essere eroi salvatori e anche a sinistra della sinistra spesso si parla di temi quali diritti, accoglienza, integrazione come di un qualcosa che viene elargito, in un movimento che va da noi all’altro. Anche in queste ore la narrazione imperante, giornalistica e non solo, parla di ponti aerei e corridoi umanitari: ma la nostra percezione di salvare alcune vite non può redimerci dal ruolo che abbiamo agito, dimenticando di aver partecipato a quel dissesto, economico, politico, culturale, che continuerà a produrre dittature e fondamentalismi anche come inevitabile reazione a una politica che non esito a definire imperialista. Ed è forse proprio per l’immagine dell’impero che Biden è stato irremovibile sullo sforare la data del 31 agosto per la fine delle operazioni di ritirata: ciò che importava era chiudere la faccenda prima del ventennale dell’11 settembre, prima che le immagini di quei corpi in caduta libera dalle Torri Gemelle tornino a occupare, per un giorno, ogni schermo. 

Facciamo tutto il possibile. Manifestiamo, doniamo, se possiamo, a chi si impegna nell’area a difendere delle vite, ma soprattutto documentiamoci e non dimentichiamo: non ripuliamo così le nostre coscienze.

Immagine nel testo da voxnews.info