di Giuseppe Seminario

Verde Lega, verde Emilia Romagna o verde speranza, perché quella pare non morire mai?

Me lo chiedo osservando la campagna di Stefano Bonaccini e pensando che quel colore ormai abbia una connotazione politica forte, chiara e inequivocabile. Mi dico che la virata hipster dai contorni fascisti – perché diciamocelo, se sei calvo, come il sottoscritto, e hai la mascella volitiva, il duce non solo lo richiami ma lo riproduci – è solo una trovata di marketing per dare la possibilità a chi ha scelto quel Matteo di avere un’alternativa. Qualcosa stride nella mia testa, perché il governo di questa regione non è stato malaccio, anzi. Rispetto ad altri, ha compiuto negli ultimi 5 anni un’azione lungimirante sulle politiche di genere e sul sostegno alle marginalità – basti pensare al reddito di solidarietà o alla legge contro le discriminazioni, che tanto ci hanno fatto patire. Lasciando parte della comunità LGBT+ scontenta, ça va sans dire. Azioni necessarie, ma percepite come coraggiose (sic) – soprattutto dall’interno del partito (il Pd, ndr), perché siamo europee, ma fino a un certo punto.

E quel qualcosa continua a stridere leggendo alcuni dei nomi delle persone candidate a favore del governatore uscente, che tutto hanno dimostrato tranne di tenerci al benessere della nostra comunità. Siamo voti, certamente, ma siamo soprattutto vite. Vite complesse da catalogare in un sistema capitalistico ed eteronormativo. Siamo esperienze quotidiane disparate, difficilmente rubricabili seguendo le categorie maggioritarie, non medagliette da appuntarsi sulla giacca. Ed è arrivato il momento di rendercene conto, quando andremo alle urne scegliendo chi ci rappresenterà. Perché questo discorso non vale soltanto per i partiti. Vale anche per chi si arroga il diritto di parlare per tutta la comunità pensando che basti una sola voce, quando invece la nostra è una polifonia, che ha radici profonde, che dobbiamo imparare a far risuonare e ad ascoltare.

Pubblicato sul numero 51 della Falla, gennaio 2020