QUANDO LA MISOGINIA AVVELENA LA MUSICA
di Ethel Gallo
Nessuno vorrebbe lavorare in un ambiente come quello dell’industria musicale sudcoreana, popolarmente conosciuta come k-pop.
Si vive sotto il costante scrutinio dei fan, che non si lasciano sfuggire nulla: un’attenzione che raddoppia nei confronti delle performer. Il crimine più imperdonabile che possano commettere è quello di supportare apertamente idee femministe, o semplicemente di non vivere secondo le regole dettate dagli uomini. È il caso di Hyuna, rapper attiva dal 2007 e capostipite di ogni sperimentazione nel panorama del k-pop femminile, costretta a lasciare l’agenzia in cui ha lavorato dal 2009, dopo aver ammesso di avere una relazione. Infatti, le idols devono essere caste e pure, pronte a soddisfare le fantasie sessuali dei fan. Ancora più eclatante ciò che è accaduto alle Red Velvet, inviate per rappresentare la Corea del Sud nel summit tenutosi ad aprile in Corea del Nord. Irene, loro leader e idol tra le più famose a livello nazionale e internazionale (gli idols non sono semplici celebrità, vengono selezionati in età pre-adolescenziale e formati per essere perfetti e coerenti con le fantasie del pubblico, diventano divinità agli occhi dei fan), ha ricevuto minacce di morte e un tentativo di boicottaggio quando è stata fotografata mentre aveva in mano Kim Ji Young, Born 1982, romanzo simbolo del movimento femminista coreano. Poco importa se in passato alcuni suoi colleghi, rigorosamente maschi, erano stati lodati per lo stesso motivo.
Il k-pop non è altro che uno specchio della società coreana, che impone standard insostenibili a chiunque, ma li fa gravare particolarmente sulle donne. Tutte tentano di seguire “la regola d’oro del peso”, che vorrebbe una nazione di donne sotto i 48 chili; l’industria della chirurgia plastica è, dal 2009, la più sviluppata a livello mondiale. È uso comune che le prime operazioni chirurgiche siano il regalo di diploma per i propri figli e nonostante le scuole vietino l’uso del make-up, fin dalle elementari le classi pullulano di bambine con mascara e lucidalabbra. Le idols, promotrici dei brand più disparati e di diete che consistono in una ciotola di riso e una mela al giorno, sono tanto vittime quanto carnefici di questo sistema. E rompere questo circolo vizioso sembra impossibile.
È in questo panorama che si è tentato di provocare un cambiamento attraverso l’Escape the Corset, il movimento a cui molte celebrità (ma nessuna idol) hanno aderito, pubblicando sui social video in cui distruggono il make-up e gli altri strumenti di tortura che permettono loro di essere belle e accettabili socialmente. Sono manifestazioni innocue, ma abbastanza importanti da aver fatto vacillare la fragile virilità tanto osannata dal maschio medio sudcoreano. Le conseguenze non sono altrettanto innocue: non quando, all’Isu station di Seoul, due donne sono state aggredite perché tacciate di femminismo. La loro colpa è stata quella di portare i capelli corti: l’hanno scontata con il ricovero all’ospedale.
E se, di solito, il mondo del k-pop è silenzioso a riguardo, questa volta ha parlato nel modo peggiore. San E, veterano dell’industria, ha pubblicato una diss track sull’accaduto dal titolo Feminist. In tre minuti, riesce ad accusare l’intera popolazione femminile di essere preda di un complesso di inferiorità: “se volete più diritti, perché non servite al militare?” E ancora, “quando vi abbiamo detto che dovete essere belle?”. Nessuno gli ha fatto notare che ha dimenticato di menzionare le violenze e le molestie che si propagano da sempre nell’industria di cui fa parte, o il modo in cui gran parte delle artiste che ne fa esperienza ne è segnata per tutta la vita.
pubblicato sul numero 41 della Falla, gennaio 2019
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