Un’esistenza trans fra quotidianità e rituale

Il clima inclemente della serata bolognese appena trascorsa non scoraggia il pubblico che alla prima assoluta di I love my sister, terzo atto della trilogia Ode alla Bellezza di Enzo Cosimi, riempie la sala allestita al Cassero LGBTI Center. I tanti rimasti vanamente in fila avranno la possibilità di rifarsi con la replica in programma questa sera alle ore 21.

Quando il pubblico prende posto in sala, il protagonista Egon Botteghi, performer non professionista, come gli altri scelti da Cosimi per i due episodi precedenti del suo ciclo, è già in scena. L’allestimento è essenziale ma assai curato: suggestive le sonorizzazioni che accompagnano la recitazione di Botteghi e riuscita la scelta di affiancare alla performance la proiezione di elementi visuali che amplificano in diretta il punto di vista del pubblico sulla scena in atto. Unica pecca, forse, il posizionamento di alcuni oggetti scenici, che risultano poco visibili dalle ultime file. La quarta parete è rotta da una parabasi di Botteghi, che presenta al pubblico lo spettacolo e se stesso, e dalle frequenti incursioni in scena di Stefano Galanti, che manovra le luci e le proiezioni, fermandosi occasionalmente a interagire in silenzio con Botteghi.

Lo spettacolo, della durata di un’ora circa, non annoia. La performance conduce il pubblico attraverso squarci del vissuto personale di Botteghi. Pur nella scelta di una narrazione per frammenti, l’interazione rivoluzionaria della persona trans con l’istituzione familiare emerge come filo conduttore, a partire dal titolo. Il protagonista si descrive come “fratello di sé stessa”, ma è anche un uomo che ha partorito i suoi figli – figli che lo chiamano mamma – ed è a sua volta un figlio riconosciuto ancora a fatica dalla madre. E non rende pienamente giustizia dell’enorme interesse narrativo di questi dati biografici – inerenti allo specifico vissuto di Botteghi ma emblematici dello sconquasso che una semplice esistenza trans porta nel sistema di valori e nelle abitudini della maggioranza – la scelta di indugiare anche su alcuni degli stereotipi più rappresentati nelle narrazioni sulle persone FtM: l’iniezione di testosterone, farsi la barba, l’esibizione della nuova voce in un pezzo cantato. Sia chiaro: sono stereotipi, questi, che appartengono in primis ai prodotti della comunità FtM, che vanta una serie di gesti codificati in centinaia e centinaia di video sparsi sulle varie piattaforme social. E sono in questo senso gesti rituali, gesti osservati decine di volte prima di essere eseguiti su se stessi e nuovamente filmati e condivisi, in un circolo di iterazioni e ri-creazioni del medesimo contenuto, che resta sempre di pari interesse e validità in quanto pensato per essere fruito dalla stessa comunità che lo produce. Messi su una scena, decontestualizzati rispetto al loro valore quasi iniziatico, perdono di forza: o meglio, finiscono per risultare meno prorompenti di un semplice aneddoto su un normale pomeriggio al supermercato, nonostante la cura estetica con cui sono resi.

Nella rappresentazione del progressivo disvelarsi (non solo metaforico) di Botteghi, del resto, è evidentemente attiva una dialettica fra lo sguardo dell’autore, desideroso di esplorare quel che di bello c’è in queste esistenze nascoste, e la consapevolezza di sé del protagonista, che, lungi dal considerarsi una persona ai margini, porta in dote il suo vissuto di destabilizzante normalità: lo sforzo di comunicazione fra questi due poli ha prodotto un’opera certamente apprezzabile, come testimoniato dal caloroso applauso del pubblico sul finale.

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