La quindicesima edizione di Gender Bender ha offerto al pubblico un documentario che parla di attivismo e diritti umani in Tunisia, con la regia di Nada Mezni Hafaieth.
“In Tunisia essere omosessuali è un reato, essere sé stessi e amare sono reati.” Esistere è un reato. Chi parla è Amina Sboui, giovane attivista, femminista e vicinissima alla comunità LGBT+, che persino del suo corpo ha voluto fare una bandiera. Dopo aver aderito al movimento Femen durante gli studi a Parigi, torna in Tunisia e si fotografa nuda con una scritta dichiarante che il corpo appartiene alla donna. Violente ed immediate le minacce dei salafiti e altrettanto rapida la risposta di Amina: la scritta “Femen” compare sul muro di un cimitero per protestare contro un congresso radicalista. Scatta l’arresto e la prigionia per profanazione e possesso di armi (uno spray antiaggressione) cui si aggiungeranno poi capi di imputazione circa la moralità. Scontata la pena, una casa editrice francese propone alla donna di scrivere un libro sulla sua vita.
Da qui l’idea della regista Nada Mezni Hafaieth di realizzare un documentario che parlasse della comunità che si è raccolta attorno ad Amina, nella sua grande casa. Combriccola che si potrebbe definire decisamente variopinta. Upon the shadow narra della vita delle persone emarginate, escluse dalla società e non tutelate dalla legge, in questo caso nelle figure di uno spaccato della comunità LGBT+ ma con un messaggio che riguarda tutti gli oppressi. Lo stile delle riprese è intrusivo, insistente, con scene che alternano frenesia comica a una tragica brutalità, inframezzate dalle storie personali dei ragazzi ripresi.
Respinti dalla famiglia, picchiati dai padri e ripudiati dalle madri. “Uno dei miei ricordi peggiori è di quando mio padre mi ha spento una sigaretta sul petto. Lo ha fatto perché avevo una maglia con lo scollo a v. Gli ho risposto che me l’aveva regalata mia madre. Lui prima ha picchiato lei, poi mi ha strappato la maglia e mi ha spento la sigaretta sul petto” la voce rotta dalle lacrime “Io la vedo ogni giorno quando mi spoglio, quando faccio la doccia. Non capisco perché tutta questa cattiveria.”
La strada per la battaglia dei diritti umani è ancora lunga in Tunisia. La legge 230, più volte citata nelle riprese, da pieno diritto alla polizia di arrestare persone considerate omosessuali. “Hanno molte prove contro di me”, racconta un altro ragazzo “potrebbero arrestarmi da un momento all’altro”.
“Una volta in carcere una donna mi ha baciato. Non sono lesbica ma mi piace raccontarlo agli integralisti. Lo faccio perché voglio combattere anche per la comunità LGBT+”. È Amina che parla e aggiunge “La cosa che più di tutte mi ha insegnato ad essere tollerante, è il carcere”.
Toccante la storia di Sandra, una travestita costretta per vivere alla prostituzione, che dice di aver avuto una relazione con un ragazzo che la accettava, ma poi gli amici di lui lo hanno convinto ad allontanarsi: “L’amore non serve a nulla. È vero che dà sollievo e migliora alcuni momenti della vita, ma alla fine non porta mai da nessuna parte.”
Dietro l’ombra di cui parla il titolo si celano le storie di questa comunità, e di migliaia di persone che in diverse parti del mondo conducono una vita di sofferenza. Strappare quel velo è un obiettivo ambizioso e la lotta per raggiungerlo è appena cominciata.
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