LE PERSONE TRANS ITALIANE FRA RIVENDICAZIONI STORICHE E NUOVE SFIDE
Fra le preoccupazioni che tengono sveglia di notte una persona impegnata in un iter medico-legale di transizione di genere, solitamente quelle di ordine storiografico non occupano una posizione di rilievo. Il tour de force di narrazione autobiografica attualmente richiesto dai percorsi di accesso alle terapie è già abbastanza prostrante senza che vi si aggiungano ulteriori sforzi intellettuali. Eppure qualche considerazione sul nostro passato recente può aiutare a indirizzare meglio quel catartico richiamo all’azione (volgarmente noto come incazzatura) che molti di noi provano in certi frangenti.
L’Italia riconosce, con la legge 164 del 1982, la possibilità che i cittadini rettifichino sui propri documenti anagrafici il sesso e, di conseguenza, il nome attribuito loro alla nascita. Prima di allora tali modifiche avvenivano già tramite una varietà di sotterfugi, che sul finire degli anni Settanta vennero d’improvviso vietati esplicitamente. Se il nome della legge, «Norme in materia di rettifica di attribuzione di sesso», vi pare reticente rispetto alla realtà che si propone di disciplinare, sappiate che l’impressione è corretta: il testo di legge non menziona né le persone transessuali, né quel «Disturbo dell’identità di genere» che l’Associazione degli psichiatri americani aveva da poco incluso nel Manuale statistico-diagnostico delle malattie mentali. L’aver lasciato implicito l’oggetto della legge fu forse un preciso piano del Partito Radicale, che per primo sostenne il testo, per prevenire un’eventuale opposizione da parte della Dc, ma è certamente sintomatico del disagio con cui la morale dell’epoca si accostava al tema delle identità di genere non conformi.
L’approvazione della legge fu fortemente sostenuta dal Mit, acronimo che all’epoca stava per Movimento Italiano Transessuali (oggi Movimento Identità Trans), una sorta di coordinamento di realtà diffuse in alcune delle maggiori città italiane. Composto esclusivamente da soggettività che oggi definiremmo MtF, era impegnato soprattutto sul fronte della tutela legale delle persone trans, il più delle volte sex workers, puntualmente oggetto della varietà di provvedimenti restrittivi che il nostro ordinamento penale aveva in serbo per travestiti e disturbatori della pubblica quiete.
Porpora Marcasciano, ex presidente del Mit di Bologna e prolifica memoria storica di quegli anni, ha raccontato a più riprese i tempi del suo attivismo giovanile e la realtà dell’epoca. Non è un caso se la legge 164 non ricorre fra i traguardi che rivendica con maggiore orgoglio. Quel contesto sperimentale, certamente durissimo, «in cui c’era un profondo e sentito senso di ricerca, si sentiva che avevamo tutto ancora da scoprire, da conquistare – quasi per sperimentare, per scardinare dei fatti, delle cose date (…)», lascia con la nuova legge il posto a una progressiva standardizzazione dei percorsi di transizione, considerati legittimi solo se orientati a produrre un corpo aderente alla norma culturale del binarismo di genere.
In retrospettiva è facile affermare che, per attuare la messa in esistenza della specifica sotto-categoria di persone trans allora più visibili e attive – le donne MtF che si erano sottoposte o intendevano sottoporsi a intervento di riassegnazione genitale – si moltiplicarono le difficoltà di tutti quanti non avessero la stessa esigenza. Sempre in retrospettiva, appare chiaro che il testo di legge definitivo, frutto di ibridazione fra la proposta dei radicali e un successivo disegno presentato al Senato dalla maggioranza democristiana, finì con l’essere uno strumento di messa in sicurezza della norma eterosessuale contro l’avvento delle nuove tecnologie medico-chirurgiche di trasformazione del corpo.
Oggi l’attivismo trans in Italia sembra muoversi su un doppio binario. Da un lato ci sono le associazioni che mediano fra la persona trans e gli interlocutori istituzionali, ricalcando ognuna a suo modo la struttura dello storico consultorio bolognese del Mit che nel 1994, all’epoca della sua fondazione, fu un esempio avveniristico di collaborazione fra utenti ed erogatori di servizio. Dall’altro, è nata una costellazione di realtà che cercano di portare avanti le istanze di chi, ormai, dai protocolli plasmati a partire dalle richieste di quella legge si sente intralciato, quando non completamente escluso. Ora queste persone, e tutte quelle che sono stufe di essere parte del rimosso di una nazione, hanno bisogno che le associazioni più potenti prendano una posizione chiara su alcuni temi fondamentali: la revisione dei protocolli di accesso alle terapie ormonali e chirurgiche, la proliferazione dei punti di presa in carico sul territorio nazionale, l’accessibilità delle cure ginecologiche e andrologiche per le persone il cui documento rispecchia l’identità di genere in contrasto col dato anatomico, la garanzia dell’accesso ai farmaci, la lotta per il diritto delle persone trans non medicalizzate a vedersi pienamente riconosciute e protette. Soprattutto, hanno bisogno di trovare dei complici nel loro sforzo di produrre nuova cultura, per riuscire a recepire, mediare, integrare e diffondere le esperienze delle persone trans che riflettono su di sé, libere dallo sguardo inquisitore del medico e del giudice.
Pubblicato sul numero 48 della Falla, ottobre 2019
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