di Antonia Caruso e Vick Virtù

Da pochi anni il 31 Marzo è conosciuto nelle comunità trans come la Giornata internazionale della visibilità trans. Precisamente dal 2009 quando l’attivista trans (ovviamente) americana Rachel Crandall denuncia la mancanza di un giorno dedicato alla celebrazione e all’orgoglio delle persone trans nelle comunità LGBT+ e nella società in generale.

Certo, ne abbiamo bisogno. Siamo in tant* a rivendicare il diritto ad autodeterminarci e a esistere come persone con un’esperienza trans che la cultura cis-eteropatriarcale vuole arginare, nei suoi modi standardizzati e violenti, in un sistema binario che contempla solo “donne vere” e “uomini veri”. In cui il significato di “vero” non è deciso da noi, dai nostri desideri, dalle nostre conoscenze, dalle dalle visioni che abbiamo di noi stess* e della realtà.

Dobbiamo però anche riconoscere il carattere posticcio di questo evento, importato gratuitamente dagli Stati Uniti e mancante della indelebile emotività di altre giornate pubbliche come il Transgender Day of Remembrance (TDOR) che ricorda le vittime della violenza transfobica patriarcale e attorno al quale le nostre comunità si raccolgono ogni anno.

Cosa vuol dire visibilità o invisibilità? E cosa vuol dire definire un concetto in maniera univoca in una comunità plurale, sfaccettata e a tratti frammentata dove pratiche e forme di vita si sovrappongono con fantasia, dolore, amore e analisi cliniche?

Nelle nostre esperienze quotidiane la questione della visibilità ha un impatto costante, tanto che parlare di una giornata a essa dedicata sembra a tratti quasi ironico, tragico e paradossale. La visibilità materiale, della carne imperfetta che si mostra allo sguardo del ciclope, di una carne che viene interpretata con occhio cis non ci abbandona mai, così come il significato sociale e le conseguenze materiali del cosiddetto passing, agognato, imposto e/o rifiutato. Baluginanti insegne di parrucchiere in notti senza luna.

Al Pride abbiamo (forse) la possibilità di mostrare tette e cicatrici, sentendoci parte di una realtà LGBT+ più vasta. E nella giornata della visibilità siamo noi a voler essere vist* e considerat*, ad andare oltre la mera visibilità dei nostri corpi per visibilizzare quelle realtà che ci circondano, che ci controllano e che ci attraversano. La violenza istituzionale che ancora vuole patologizzarci, la normalizzazione e il razzismo che permettono ad alcun* di noi di accedere a una relativa accettazione, creando gerarchie sociali che dobbiamo combattere, o anche il precariato che ci rende ancora più vulnerabili.

Siamo corpo ma non solo. Siamo processi, siamo idee, pensieri, siamo politica ed è questo che dobbiamo mettere in scena oggi. La storia dei movimenti trans ci ha dato, e continua a darci, la possibilità di costruire narrative alternative che ci rappresentano e che ci permettono allo stesso tempo di farci ascoltare. Non basta accettare che le persone trans esistano, bisogna cambiare il modo di pensare alle categorie donna/uomo, modificare il linguaggio, organizzare gli spazi e le procedure non solo in un’ottica di inclusione delle esperienze trans, ma in modo da dare centralità a voci e conoscenze specificatamente trans. Visibilizzare una prospettiva trans.