COME IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA INFLUENZA (ANCHE) IL DIBATTITO PUBBLICO
La decisione di Facebook e Twitter, imitata poi da Twitch, YouTube e Snapchat, di chiudere gli account social di Donald Trump, in seguito all’assalto di Capitol Hill, ha (ri)acceso il dibattito sul rapporto tra strapotere delle multinazionali del web e libertà di espressione. L’opinione pubblica si è sostanzialmente spaccata in due: da una parte chi considera questo atto come un’intollerabile censura ai danni del presidente uscente degli USA, dall’altra chi crede si tratti di una scelta tanto doverosa quanto tardiva e ipocrita.
Se infatti non è accettabile che Trump usi le piattaforme social per istigare all’odio, alla violenza e all’insurrezione, motivo per cui è stato sottoposto alla procedura di impeachment per la seconda volta nel suo mandato, caso unico nella storia della democrazia americana, è altrettanto vero che ha potuto farlo indisturbato fino a poco fa. Per quattro anni Trump ha infatti usato il proprio account Twitter personale @realdonaldtrump (e non quello ufficiale del presidente degli Stati Uniti @POTUS, scelta niente affatto casuale) come un martellante megafono propagandistico con cui rivolgersi direttamente al suo elettorato, evitando il confronto con la stampa, che ha sempre dileggiato e disprezzato pubblicamente. Il social creato da Jack Dorsey è stato così centrale nella sua ascesa politica che, dopo la chiusura definitiva, l’Associated Press ha dedicato all’account da 57mila tweet un vero e proprio necrologio commemorativo. D’altra parte lo stesso Trump ammise in un’intervista rilasciata a Fox Business Network nel 2017 che senza i social media difficilmente sarebbe diventato presidente.
Il rapporto tra social network e The Donald ha iniziato a farsi teso dopo lo scoppio della pandemia, per poi incrinarsi ulteriormente durante la campagna elettorale delle presidenziali: per tutto il 2020, tweet e post Facebook del presidente, grondanti odio razziale e politico, fake news sul Covid-19 e fantomatici brogli elettorali mai provati, sono stati accompagnati da disclaimer che avvisavano le/gli utenti della non veridicità e/o pericolosità di quei contenuti, invitandol* a un fact checking presso altre fonti di informazione, giornalistiche e istituzionali, più attendibili e autorevoli. Uno smacco tale per Trump da spingerlo a proporre l’abolizione di quella famosa sezione 230 che assolve le piattaforme da ogni forma di responsabilità rispetto ai contenuti pubblicati dalle/gli utenti, differenziandoli così dagli editori. Eppure il legittimo quanto auspicabile oscuramento di Trump da parte dei giganti del web assume inevitabilmente i contorni di una decisione di carattere politico e dimostra come nei fatti si comportino da editori.
Il caso Trump è sintomatico dell’ampia e diffusa proliferazione di profili, gruppi e pagine che diffondono odio, folli e pericolose teorie cospirazioniste e fake news, sia sui social network sia su WhatsApp e Telegram. Proprio all’interno di queste bolle è nato e si è consolidato il consenso di tutti i populismi, sovranismi e nuovi fascismi che minacciano le fondamenta delle democrazie occidentali. Attraverso queste piattaforme tante persone, in buona parte giovani, si sono radicalizzate a destra e diverse tra loro sono passate dalla propaganda all’azione, pianificando e compiendo stragi e attentati, alcuni per fortuna sventati, altri drammaticamente compiuti, compreso proprio il recente assalto a Capitol Hill.
Chi si occupa di attivismo online sa quanto sia difficile far rimuovere contenuti di odio e chiudere pagine e gruppi che li diffondono. Troppe volte riceviamo in risposta dai vari Facebook (che, come sappiamo, possiede anche Instagram e WhatsApp) e Twitter che un contenuto palesemente omolesbobitransfobico, misogino o razzista da noi segnalato non è stato rimosso in quanto, a loro dire, rispetterebbe le «linee guida della community». Parallelamente vediamo sparire contenuti nostri e di altr* attivist* solo perché relativi a body e sex positivity, considerati dai social inappropriati e quindi censurabili sulla base di condizioni d’uso che riproducono anche online un sistema di oppressione sessuofobico, eterocisnormativo, razzista, abilista e grassofobico.
A spiegare l’origine e il meccanismo dietro agli algoritmi delle piattaforme digitali è il libro dell’accademica statunitense Shoshana Zuboff Il capitalismo della sorveglianza, pubblicato in Italia da Luiss University Press nel 2019. Un saggio illuminante, estremamente ricco e documentato, che ripercorre la storia dei colossi del web in tutte le sue fasi, dalla nascita avvenuta tra gli anni ‘90 e i primi 2000, all’ideazione e sviluppo dell’attuale modello di business estrattivo e cumulativo, chiamato dall’autrice per l’appunto “capitalismo della sorveglianza”, che ha permesso loro di diventare aziende private con profitti che superano il Pil di intere nazioni.
Come ha ricordato Zuboff in una recente conversazione con il direttore dell’Espresso Marco Damilano, rispetto al Grande Fratello orwelliano, il capitalismo della sorveglianza rappresenta un Grande Altro a cui non interessa «se noi siamo tristi o felici, se stiamo tramando un attentato terroristico o se stiamo preparando le carte per sposarci». Il suo unico obiettivo è l’estrazione e la vendita di informazioni sui nostri comportamenti, estrapolate dai dati che noi stess* immettiamo volontariamente dentro le piattaforme, col fine di plasmarli, condizionarli e influenzarli, potenzialmente in ogni ambito della nostra esistenza, dall’acquisto di un bene materiale sino al voto (si pensi al caso Cambridge Analytica). Quello esercitato dal capitalismo della sorveglianza è un tipo di potere completamente inedito che Zuboff definisce «strumentalizzante». A differenza di quello tipico dei totalitarismi, che agisce ricorrendo a violenza, intimidazione e terrore, il potere strumentalizzante ci raggiunge, persuade e pervade, blandendoci e agganciandoci a esso attraverso tecniche di marketing come la Gamification e meccanismi in grado provocare dipendenza come la FOMO (Fear of Missing Out, letteralmente “paura di essere tagliat* fuori”).
Questa complessa e articolata architettura del controllo, che ormai satura ogni angolo del nostro ambiente attraverso il cosiddetto internet delle cose (ovvero tutti gli oggetti che si collegano alla rete, dai telefoni agli elettrodomestici smart, fino ai sistemi di videosorveglianza basati sul riconoscimento facciale), mette a rischio la nostra libertà di scelta, libero arbitrio e quindi la base della democrazia. L’unica forma possibile di opposizione e contrasto suggerita da Zuboff è l’organizzazione di una vera e propria resistenza che passi da un’alleanza tra cittadin* e istituzioni politiche. L’obiettivo deve necessariamente essere la definizione di quadri legislativi in grado di regolamentare e arginare questa nuova forma di capitalismo, fermandone l’attuale espansione selvaggia e sancendo inalienabili diritti (e doveri) digitali.
Proprio il bando di Donald Trump dalle piattaforme e la conseguente reazione di forte perplessità e preoccupazione espressa dai vertici politici di Berlino, Parigi e Bruxelles, sembra aver dato una spinta a quel processo legislativo avviato lo scorso 15 dicembre 2020 nell’Unione Europea, attraverso due proposte di legge da sottoporre al giudizio degli Stati membri e del Parlamento Europeo: Digital Markets Act e Digital Services Act. La prima andrebbe a regolamentare il mercato digitale, limitando la posizione dominante e sostanzialmente monopolistica di GAFAM (acronimo che sta per Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), mentre la seconda si propone di disciplinare i contenuti illegali che circolano nel web come discorsi d’odio, terrorismo, fake news, pedopornografia, pubblicazione non consensuale di foto e video privati e vendita dei prodotti contraffatti. Verrebbe quindi finalmente sancito per legge il principio secondo cui ciò che è illegale nel mondo offline deve esserlo anche in quello online. L’attuale bozza del Digital Services Act continua a non prevedere la responsabilità diretta delle piattaforme rispetto ai contenuti pubblicati dalle/gli utenti, ma le obbliga a una rapida rimozione di quelli ritenuti illegali, attraverso un sistema di controllo e segnalazione molto più incisivo rispetto all’attuale. Le piattaforme online che raggiungono più del 10% della popolazione dell’Ue (quantificabile in 45 milioni di utenti) verranno infatti considerate di natura sistemica e saranno quindi soggette sia a specifici obblighi di controllo interno sia all’introduzione di una nuova struttura di sorveglianza esterna.
Possiamo facilmente immaginare la durissima opposizione che i capitalisti della sorveglianza metteranno in campo per fermare e sabotare l’approvazione di questo nuovo impianto normativo, attraverso azioni di lobbying e ricatti politici e commerciali. Spetterà a noi cittadin* monitorare il processo legislativo, con pressioni e mobilitazioni di un attivismo di base, frutto di consapevolezza e scambio di informazioni. Solo così si potrà mettere fine a quell’enorme squilibrio di potere e conoscenza che ha permesso alle corporation digitali di spadroneggiare nei primi due decenni di questo secolo, riproducendo un modello economico e sociale di stampo feudale, distante anni luce dalla promessa di eguaglianza che caratterizza la democrazia.
Immagine in evidenza da ilprimatonazionale.it, nel testo da insidemarketing.it e da sky.it
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