La ricerca storica è fatta di revisione: la normale prassi prevede di porsi un interrogativo, tentare un’ipotesi, e indagare per verificarla, correggendo eventualmente le tesi precedenti teorizzate per rispondere alla stessa domanda. Ma una cosa è la revisione, una cosa è invece il revisionismo. La differenza sostanziale, da un certo punto di vista, è nel movente: la correzione non è frutto incidentale e involontario della ricerca, ma la precede e la caratterizza come ricerca di giustificazioni.
Ora, il 13 di febbraio il National Park Service, agenzia federale statunitense che dal 2016 si occupa del monumento nazionale dello Stonewall Inn, ha modificato il sito ripulendolo da qualsiasi riferimento all’identità trans* e accorciando la sigla LGBTQ+ lì usata in LGB, eliminando prima la T e poi, due ore dopo a guardare la Wayback machine, anche la restante parte Q+. Unici sopravvissuti sono stati i nomi di Sylvia Rivera e Marsha P. Jonshon nel carosello digitale delle fotografie storiche appese alla recinzione del parco in cui è situato il monumento, probabilmente proprio in virtù di questa loro presenza fisica, ma è da notare che le due donne sono ora definite, nelle didascalie delle foto digitali, come «travestite», e viene spontaneo chiedersi se e quando anche quest’ultima traccia sarà eliminata.
La decisione di cancellazione della componente TQ+ dalla sigla LGBTQ+ arriva non a caso, ma segue a stretto giro l’ordine esecutivo con cui Trump, il 21 gennaio, riconosceva l’esistenza di «due soli sessi: maschio e femmina» ed è quindi in linea con le politiche emanate dal nuovo presidente degli Stati Uniti, a cui si aggiungono anche l’esclusione retroattiva di tutte le persone trans* dalle forze armate e il loro allontanamento dagli sport femminili, la negazione del visto per fini sportivi, le nuove regole sulla moderazione di Meta e di Twitter.
Sono manovre che hanno il sapore di un’esperienza vissuta in Italia tra ventennio fascista e anni ’70 – quando secondo la legge l’omosessualità non esisteva ma era comunque perseguitata – e che sono frutto di una strategia politica imperniata, secondo Heather McGhee, sul concetto di gioco a somma zero. Ossia, in campo socio-economico non vi può essere un progresso mutuale per tutte le persone coinvolte in una società, ma solo l’emancipazione di un gruppo a scapito di un altro; in quest’ottica, così come è stato per le comunità nera e immigrata, la minoranza trans* – ultima arrivata nel panorama delle rivendicazioni politiche e tutt’oggi divisiva per l’opinione pubblica – offre lo spauracchio e il capro espiatorio perfetto per nascondere l’incapacità della politica americana (meglio ancora, del partito repubblicano) di opporsi al sistema capitalista e alle aziende che finanziano le sue campagne elettorali: per vendere di più, è meglio un mercato segmentato e un’utenza individualista estranea a strutture associative o comunitarie, incapace di condividere beni e risorse, e quindi costretta ad acquistare di più.
Ecco allora che qualsiasi azione politica favorevole a un rinsaldamento comunitario viene ostracizzata con la scusa di non favorire lo 0,5% della popolazione, e che, per non scontentare l’elettorato e simulare una qualche produttività, si legifera proprio a danno di quello stesso 0,5% della popolazione, come se fosse una minaccia dilagante e allo stesso tempo subdola, onnipresente, silenziosa eppure paradossalmente così rumorosa; con cioè tutte le contraddizioni tipiche della narrazione complottista.
Le risposte all’iniziativa governativa di riscrittura dei moti di Stonewall sono state variegate: da un lato c’è chi ora espatria per timore di ulteriori azioni di repressione (ed è difficile non avvertire un senso di déjà-vu); dall’altro ci sono state anche reazioni di protesta, come quella organizzata il 15 febbraio di fronte allo stesso memoriale e come il messaggio video pubblicato sui social dallo stesso Stonewall Inn, in cui Stacy Lentz, proprietaria del locale e amministratrice delegata dell’organizzazione no-profit Stonewall Inn Gives Back, si è dichiarata «sconvolta da al tentativo di questa amministrazione di cancellare le persone trans e non binarie dalla storia LGBTQ+» e che è cosciente che «non ci sarebbe un Pride senza la T» e che è intento della sua organizzazione continuare a combattere per la difesa e il riconoscimento della nostra famiglia trans e non binaria [our trans and non-binary siblings nell’originale, ndr]». Ha inoltre aggiunto che «Lo Stonewall Inn è e sarà sempre uno dei nostri originari spazi sicuri per l’intera comunità».
Dal canto nostro, al di qua dell’Atlantico, c’è poco che possiamo fare se non esprimere la nostra solidarietà per la comunità LGBTQIA+ statunitense e per Stonewall Inn Gives Back, e ricordarci sempre chi, quel giorno di protesta del 1969, scagliò la prima pietra.
Immagine in evidenza: abcnews.go.com
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