Iran, 8 marzo 1979: una folla di migliaia di donne attraversa in marcia le strade di Teheran per chiedere al Primo Ministro della neonata repubblica islamica di sollevarle dall’obbligo di indossare l’hijab. Le donne vengono respinte e picchiate dalla polizia, e la giornata internazionale della donna viene formalmente vietata in Iran. Al suo posto si festeggia la giornata della donna e della madre nella data in cui cade la nascita di Fatima, figlia del profeta Maometto e figura importante nell’Islam sciita. Questo però non impedisce alle attiviste iraniane di cogliere l’occasione dell’8 marzo per manifestare la propria partecipazione alle proteste e alle celebrazioni che si tengono nel resto del mondo, correndo anche il rischio del carcere. E se l’8 marzo è davvero tutti i giorni, allora non sono meno significative le proteste che hanno seguito la morte di Mahsa Amini, o il gesto della studentessa che è stata arrestata per essersi svestita davanti a un’università lo scorso novembre. Abbiamo quindi scelto per questo 8 marzo di intervistare Sohyla Arjmand, attivista iraniana che vive a Bologna da 40 anni e si è allontanata dall’Iran proprio in seguito alla Rivoluzione islamica, che da anni lotta per i diritti delle donne iraniane anche con il gruppo Donne per Nasrin.
Sohyla, vorremmo sapere di più su di lei e sulla sua storia: qual è stato il suo percorso e cosa l’ha spinta a diventare un’attivista per i diritti delle donne?
Quando ero bambina, ero ossessionata dalle domande su Venezia. Mi chiedevo come fosse possibile vivere in una città costruita sull’acqua. Nel 1978, l’anno in cui ho conseguito la maturità, mio padre mi fece un regalo speciale: un viaggio di tre mesi in Italia. Durante la mia permanenza, mi chiamò e mi disse: «Non tornare in Iran, l’aria sta cambiando». Fu così che andai a Perugia per studiare la lingua italiana e, successivamente, mi trasferii a Sassari per studiare alla facoltà di Farmacia. Dopo il primo anno, chiesi, insieme al mio attuale marito, il trasferimento a Bologna. Ed è qui che sono rimasta, a Bologna, per ben 40 anni. Per molto tempo non mi sono affatto interessata alla politica. Tuttavia, una serie di eventi in Iran cambiò radicalmente la mia visione. Il regime cominciò a vietare ai genitori di inviare denaro ai figli all’estero, mise sotto controllo i telefoni della popolazione e perseguitò chiunque fosse sospettato di opporsi al regime. Le azioni intraprese dal regime videro come vittime anche mio fratello e le mie due sorelle.
Proprio a seguito della morte di una delle mie sorelle ho deciso di intraprendere la strada dell’attivismo, nello specifico ho deciso di battermi per tutelare i diritti delle donne. Io sono attivista perchè non voglio che quello che è successo alla mia famiglia e alle donne succeda ad altrɜ.

Quali sono le sfide che le donne iraniane affrontano nella loro lotta per i diritti? E quali sono i loro principali strumenti di mobilitazione?
Negli ultimi 3 anni la resistenza è aumentata, il 40% delle donne per esempio non porta il velo, va in moto, le donne cantano per strada, cantano ai funerali perché il regime non vuole che si diffondano gioia e felicità. Il regime reagisce in diversi modi: accusa le donne di reati inesistenti per procedere con le incarcerazioni, relega nelle stesse celle le prigioniere politiche con chi ha commesso atti di delinquenza e costringe le seconde a porre fine alla vita delle prime. Le donne iraniane però non hanno paura e la grande differenza tra loro e le donne afghane è che le seconde non ricevono alcun sostegno. In Iran invece le giovani generazioni, e non solo, si sostengono tra loro. C’è una grande rete di solidarietà.
Cosa rappresenta quindi per lei l’8 marzo e perché è importante celebrarlo? Che messaggio vorrebbe trasmettere alle giovani donne iraniane (ma non solo) che aspirano a un cambiamento?
Le donne si devono battere per loro stesse e per tutte le altre donne tutto l’anno, non sopporto chi si fa vedere solo nei momenti in cui si parla del determinato tema per fare audience.
Quindi il mio invito è questo: l’8 marzo facciamoci sentire e, cosa importante, parliamo con un linguaggio che possa essere compreso da tuttɜ. Solo così la nostra voce comincerà a valere davvero.
Immagine nel testo ed in evidenza da padovaoggi.it
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