UNA STORIA DI RESISTENZA MIGRANTE

La mia è una storia di resilienza. È la storia dell’acqua: mi adatto e accetto di buon grado di prendere la forma del contenitore, ma non accetto di essere compresso.

Provo a ricostruire il mio identikit generico (poliedrico!) degli ultimi 19 anni, visto con gli occhi degli italiani e degli stranieri medi, partendo dai commenti che sentivo mentre lavoravo come commesso, approfittando  del/subendo il fatto che la gente comune mi scambi spesso per un italiano, nonché dalle chiacchiere da bar, sui social e nella cronaca, e da esperienze dirette vissute in prima persona.

Nei primi anni 2000 i più mi vedevano come un potenziale terrorista di provenienza genericamente “araba”, esperto nella preparazione di cinture esplosive, analfabeta, pigro, poco affidabile. I migranti di religione musulmana, specie se arabofoni, mi riconoscevano come siriano. Alcuni di loro dubitavano dei miei principi etici, considerandomi troppo occidentalizzato, forse in quanto cristiano.

Dalla Primavera araba del 2011, e soprattutto dal il 2015, sono diventato tutto e il contrario di tutto: ragazzo istruito e lavoratore; oppure parassita o invasore; uno con la testa a posto, perché parlo italiano e uso il nome Paolo; forse uno ricco, perché sono nato in Kuwait; probabilmente un bravo cittadino, perché mangio la pasta e bevo alcolici.

Sono davvero gay o l’essere troppo occidentalizzato mi ha corrotto? E poi è risaputo che i gay arabi e musulmani non esistono. È probabile che io «faccia il gay» per potermi mantenere. In fin dei conti, un immigrato è pur sempre uno straccione, e lo è perché se l’è cercata. Tuttavia ho tutto gratis e intasco 35 euro al dì. Sono agnostico, ma essendo io un estremista di religione “araba” uso espressioni che non capisco e poi un bel giorno mi farò ugualmente saltare in aria.

Sono “sbarcato” all’aeroporto di Roma-Fiumicino verso la fine del 2001, dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Avevo solo vent’anni; all’insaputa dei miei genitori, musulmani, mi ero convertito e andavo a unirmi a una piccola comunità cattolica alla periferia della Città Eterna. Arrivato a Roma, avvertii il clima di netta chiusura nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con il Medio Oriente. Davanti a questa chiusura, unita allo shock culturale, sono finito per 17 giorni in ospedale. All’epoca parlavo solo l’arabo e l’inglese. Quando l’operatore mi ha portato il pasto per la prima volta, si è messo a gridare in italiano: «Musulmano? Terrorista? Arabo? Bin Laden? Al Qaeda? Afghanistan?». Voleva semplicemente capire se avevo problemi a mangiare la carne di maiale! Più avanti, un medico libanese mi consigliò, dato il clima avverso ai mediorientali, di non firmare usando l’alfabeto arabo.

Decidere di stabilirsi in un nuovo Paese non è una scelta da prendere alla leggera perché segnerà il proprio futuro. Feci una valutazione comparata di vantaggi e svantaggi che mi offrivano Siria e Italia, analizzando diversi fattori. Per quanto riguarda la laicità dello stato, il sistema di governo, l’appartenenza all’Unione europea, e l’omosessualità, punita per legge in Siria, vinceva indubbiamente l’Italia. Di contro, in Siria appartenevo a una famiglia di ceto medio, mentre in Italia non avevo agganci né titoli di studio qualificanti, e la burocrazia legata al permesso di soggiorno è un labirinto infinito.

Spostando il mio ragionare sulle comunità che attraversavo nei primi mesi in Italia, considerai che non avevo alcuna garanzia, né sugli italiani, né sui migranti. Non conoscevo, infatti, nessuno in Italia, per la barriera linguistica, per la natura stessa del soggiorno nel collegio cattolico che comunicava poco con l’esterno, per il palpabile sentimento diffuso nei confronti degli extracomunitari, spesso intriso di diffidenza e indifferenza. 

Per quanto riguardava la comunità dei migranti arabofoni, era composta in gran parte da cittadini nordafricani con i quali faticavo a comunicare in arabo, ed erano presenti omofobia e discriminazione per questioni legate al credo religioso. 

Il bilancio della situazione fu: «Resto in Italia e faccio il trampoliere». Non potevo appoggiarmi ad alcuna comunità, né alle istituzioni, né al clero: solo a me stesso

Per sopravvivere mi servivano innanzitutto la conoscenza della lingua locale e il contatto con le persone. Mi sono immerso a capofitto nello studio della lingua italiana in modo quasi del tutto autodidatta, poi mi sono trasferito in un piccolo paesino dell’Umbria per lavorare al negozio di prodotti monastici di un monastero molto rinomato. Prima di me, ci lavorava un ragazzo statunitense che era entrato in Italia con un visto turistico e, al suo termine, soggiornava indisturbato come clandestino, a cui nessuno chiedeva di esibire i documenti. Un giorno, un carabiniere mi si avvicinò in negozio per dirmi: «Ti tengo d’occhio!», come se l’essere arabo e extracomunitario rappresentasse di per sé una tendenza al crimine.

Rimasi al monastero finché il priore scoprì la mia omosessualità e mi cacciò. Mi trasferii quindi in Emilia-Romagna, costretto a frequentare per altri due anni il corso di teologia al seminario regionale per poter rinnovare il mio permesso di soggiorno, che riportava ancora la dicitura «motivi religiosi». 

Alla fine, vengo adottato da un cittadino italiano e in questo modo modifico la dicitura del Pds (Permesso di soggiorno, ndr) in «motivi familiari». C’è stato, sì, il gesto generoso dell’adozione, ma c’è stato anche il rovescio della medaglia: la cura come cambiamento dell’altro, visto che l’altro in questione, cioè io, viene considerato sbagliato, fuori dal range, incapace di badare a se stesso; deve essere costantemente sorvegliato, contenuto, redento.

Mi diplomo in ragioneria e apro una partita Iva come interprete per assicurarmi di avere tutte le carte in regola per l’ottenimento del Pds a tempo indeterminato.

Scoppia la Primavera araba e la Siria viene distrutta. Presunto rifugiato, acquisisco, agli occhi di alcuni, un potere assoluto sull’Italia: disoccupazione, instabilità politica, malattie, furti, etc., sarebbero, secondo la propaganda di destra, il risultato della presenza dei rifugiati.

 Nell’ambiente LGBT+ avevo constatato inizialmente un totale disinteresse nell’investire tempo e risorse per l’emersione dei bisogni delle persone LGBT+ migranti. Anche oggi non mancano i gay di provenienza extracomunitaria, sia di prima che di seconda generazione, insultati sui siti di incontri per gay con auguri di morte, di affogare in mare, chiamati straccioni, etc; molti sono costretti a nascondere il fatto di essere dei rifugiati.

In Emilia-Romagna ho avuto un aiuto prezioso dal gruppo romagnolo di credenti LGBT+ Narciso e Boccadoro. Nel 2009 ho partecipato alle prime audizioni del coro Komos, di cui sono poi diventato presidente. Il canto è stato liberatorio per me: non più litanie cantate in chiesa, ma orgoglio e presa di coscienza portati insieme sui palchi d’Italia e d’Europa.

Se fossi rimasto in Siria, probabilmente ora avrei fatto la fine dei miei connazionali, denudati e torturati selvaggiamente dai fascisti europei radunati al confine tra Turchia e Grecia.

Se non avessi affrontato questo oceano di sfide, qui in Italia, non avrei mai capito di avere questa grinta e capacità di resistere. 

Mi sto per laureare a 39 anni, non a 22 o 23 come fanno molti. A volte sento di avere perso 15 anni che non torneranno, ma, in fin dei conti, sono soddisfatto per come questo percorso complesso mi abbia plasmato la mente e forgiato il carattere. Amo l’Emilia-Romagna per diversi motivi. Mi sento fortunato, in quanto migrante, di poter vivere liberamente il mio essere omosessuale, di poter contribuire attraverso il mio attivismo alla nostra causa come comunità LGBT+ e a modificare la narrazione della migrazione.

Pubblicato sul numero 54 della Falla, aprile 2020

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