Crevalcore non è poi così male da vivere nell’omosessualità. Siamo dei provinciali perbenisti, fighettini bolognesi che si sforzano di rimarcare i confini con le altre due province adiacenti. Da un certo punto di vista può anche essere “meglio frocio che ferrarese”, insomma.
Perbenisti, dicevo; perché non sono aggressivi e perché vanno a messa la vigilia di Natale. Possibile, ma difficile, sentirti gridare “Frocio” o “Lesbica di merda” in mezzo alla piazza (le lesbiche, grazie alla loro secolare invisibilità, non hanno un epiteto offensivo; perciò il sostantivo diviene accusatorio grazie al suo aggettivo di accompagnamento); più facile invece percepire risatine di scherno tra gruppi di poche persone. Si vergognano di essere omofobi, quindi l’emarginazione sfila tra il passaparola, nei sussurri a bassa voce seguiti dalle risate sguaiate. Ed è lì, quando scoppia la risata intorno a te ma non hai sentito la battuta, che capisci di esserne la protagonista.
Non ho mai avuto testimonianze di episodi di violenza fisica: botte, schiaffi, teste nel water, pantaloni tirati giù a tradimento e altre pratiche ascoltate, invece, nei racconti di amici d’altri paesi. Ma la violenza psicologica scorreva comunque, silenziosa: nelle occhiate, nell’esclusione, nelle risate, nelle scritte sui muri o sui cartelloni pubblicitari (più spesso su questi ultimi: così perbene, a Crevalcore, da avere paura dello sfregio di una bomboletta sul muro).
Non c’è la forza bruta della massa, solo la complicità della battutina col vicino di sedia, al bar. Il bar è il non-luogo, a Crevalcore: ultimo baluardo dell’identità paesana autoctona. Dal secondo dopoguerra in avanti infatti, i bar hanno fatto la fortuna economica dei proprietari e costruito l’identità comunitaria dei crevalcoresi: la compagnia.
Nei miei anni Novanta la compagnia era ormai un’appartenenza comprovata e necessaria per esistere: se non avevi una compagnia, non esistevi. Fino al compimento dei sedici anni, il quartier generale della compagnia erano le panchine sui viali. Da lì in poi, il bar. Un bar, una compagnia (al massimo due, ma in zone separate). E il bar, se lo immaginate come unico luogo di fraternizzazione, coadiuvata da pettegolezzi e bevande alcoliche, non era un luogo adatto alla visibilità di gay, lesbiche e trans (sì, abbiamo avuto anche quelle). Ma si poteva tranquillamente passare inosservate/i, adeguandosi agli status symbol del tuo genere biologico – moto o auto grossa parcheggiata fuori per i maschi, rossetto e abbigliamento coordinato per le femmine – e tutt’al più si parlava di te in segreto, coi sussurri e le risatine di cui sopra.
Per scivolare fuori da quei sussurri ed ergermi in tutta la mia visibilità lesbica, ho dovuto perciò scalare la vetta del riconoscimento sociale massimo: sono diventata una barista. Dall’altra parte del bancone, col potere di decidere la dose di sambuca nel caffè o la concessione di un piattino di stuzzichini-omaggio in più, mi sono protetta con uno scudo invisibile di riverenza. Un Vodka Martini fatto a regola d’arte e qualche battuta autoironica sulle pratiche sessuali saffiche (un mezzuccio di bassa leva, lo so) hanno contribuito alla trasformazione da Diana Prince a Wonder Woman.
Oggi, quando mi chiedo se ho dato un contributo alla visibilità delle giovani leve queer di provincia, mi rendo conto che l’attenzione si è spostata. Sono arrivati gli immigrati (gli “extra”, si dice là nella bassa): i crevalcoresi hanno veri nemici da combattere, e dentro sussurri e risatine tra un bar e l’altro ci stanno le coraggiose persone che scelgono un/a partner straniero/a.
pubblicato sul numero 28 della Falla – ottobre 2017
immagine realizzata da Mara Santinello del collettivo artistico Gli infanti
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